mercoledì 26 ottobre 2011
GARAGE SALES
Da che punto nel tempo o da che zona cronologica ci parlano gruppi come i White Stripes (ormai sciolti) o i Black Keys, che si rifanno in modo esplicito a stilemi musicali che fanno parte della tradizione rock? Garage blues reimpiantati nel tempo presente, che arrivano ai piani alti delle classifiche, ma che appaiono - alla fine - rassicuranti e già sentiti. Sappiamo bene cosa troveremo nei loro dischi, una sorta di classicismo dell'immondizia, suoni sporchi al punto giusto. È un buon esempio dell'estetica da mercatino dell'usato di cui Reynolds parla rifacendosi in parte al critico d'arter francese Nicholas Bourriaud, con il suo concetto di Post-produzione: opere d'arte che si basano sul riciclo e sulla rimessa in circolo di tratti stilistici ormai consegnati al junkyard della storia, con l'artista che interviene sempre più in fase di post-produzione, modificando e mescolando oggetti, suoni e immagini pre-esistenti.
E quindi, nel nostro caso, ascoltiamo canzoni che potrebbero essere state scritte in un momento qualsiasi tra il 1965 e il 2010. O anche prima. E il dato sconcertante è che questi artisti diventano icone di stile, produttori e autori di successo (chi rinuncerebbe nel 2011 a un cameo di Jack White?). Persino, con Seven Nation Army, i White Stripes sono arrivati all'inno da stadio (certo un effetto non voluto). I Black Keys, per parte loro, concedono gioielli di retro-blues a innumerevoli spot pubblicitari (non c'è ovviamente alcun moralismo, solo la strana sensazione che si prova nell'ascoltare certi suoni del passato in rapporto a, poniamo, un cellulare di utlima generazione). Senza dimenticare altre declinazioni del verbo garage, da quella psycho-blues dei Black Rebel Motorcycle Club, al garage punk degli Hives, fino a gruppi che guardano più all'hard anni settanta come Wolfmother e Jet: tutte band che in un modo e nell'altro hanno avuto momenti di grande successo attorno alla metà degli anni 2000.
Si assiste in modo esplicito all'abbandono dell'ideale modernista, che consisteva, per dirla in breve, nella ricerca dell'evoluzione e del progresso come segno di autenticità. I dischi di queste band diventano dei modi per marcare il presente, entrando magari nelle classifiche dei dischi dell'anno e del decennio, ma la marcatura porta con sè il carico di una tradizione esplicitamente assunta come più autentica dei suoni di oggi. Viene quindi considerata "centrale" e significativa per il nostro tempo quella che appare una specie di fissazione manieristica su determinate epoche e suoni. Anche se va detto che i White Stripes il meccanismo retromaniaco lo usavano in modo così esibito da essere allo stesso tempo dentro e fuori tutto questo sistema retrosonoro. I giochi con i colori, i video citazionisti e simpaticamente postmoderni di Michel Gondry, le battute sulla relazione fintamente ambigua tra Jack e Meg, la spudorata povertà del loro esibirsi come icone stilose di un passato povero ed essenziale: tutto concorre a fare dei White Stripes la massima incarnazione dei paradossali intrecci tra passato e presente che hanno caratterizzato gli anni zero (e che caratterizzano, magari con sfumature diverse, gli anni dieci).
Per questo intreccio tra rinascita garage, estetica da mercatino dell'usato, riciclo di carillon della zia e di vinili del nonno, trendismo vintage ed estetica cool pubblicitaria, propongo di usare il termine "Garage Sales", richiamando i mercatini fatti per svuotare il garage di cose che non si sa più dove mettere. Che, per chiudere il cerchio, sono un'istituzione tipicamente americana, vista in innumerevoli telefilm, perciò a loro volta un termine "di recupero".
Etichette:
garage sale,
Nicholas Bourriaud,
Retromania,
Simon Reynolds,
White Stripes
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento