lunedì 12 dicembre 2011

Ian Dury, il punk cockney

Direi che tutti, o quasi, abbiamo citato il titolo di una canzone di Ian Dury, probabilmente senza saperlo. Sex & Drugs & Rock & Roll, lo slogan che sintetizza nel bene e nel male tutta un'estetica e uno stile di vita, è infatti il titolo di una hit del 1977 suonata da Dury con la sua band, i Blockheads, le teste dure. Dury era nato nel 1942 a Harrow, nella periferia di Londra, e se l'era ben presto vista brutta. Non tanto per i bombardamenti e le difficoltà del periodo bellico o per i razionamenti imposti dalla famigerata austerity degli anni successivi. Il fatto è che a sette anni Ian si becca la poliomielite, come capitava ancora all'epoca a molti bambini, e la malattia lo lascerà menomato e zoppicante per il resto della vita. Ian Dury, figlio di un'autista di Rolls Royce e di un'infermiera, inizia così la trasformazione che lo porterà a diventare il cantore ironico e appassionato di una fauna urbana losca e sessualmente iperattiva, un sottobosco assolutamente londinese cantato con un esageratissimo accento cockney e con rime criptiche e geniali.
Ian Dury lo storpio è uno di loro, una creatura notturna sempre pronta a ficcarsi in un'avventura sessuale o a raccontare qualche storiella piena di doppisensi e modi di dire. Ian Dury, stimolato dai lavori di artigianato svolti alla scuola per disabili in cui rimane per alcuni anni, decide poi di seguire il proprio impulso artistico entrando in una scuola d'arte e infine iscrivendosi al prestigioso Royal College of Art.
Ma il suo temperamento eccessivo e provocatorio, in bilico tra frustrazione per il proprio stato, senso di rivalsa, e spirito dissacratore, lo porta a provare la carriera musicale. Anche se, all'inizio, carriera è una parola grossa. Con una ciurma di spostati degni di lui, i Kilburn & The High Road, inizia una lunga e frustante trafila fatta di concerti in bettole di ogni genere, conditi dall'ostilità del pubblico e da pochi penny in tasca. Poi, alla metà degli anni settanta, cambia qualcosa. Il fatto è che è arrivato il punk, e questa, per un cantore della working class con una particolare propensione a parlare di sesso e di avventure al limite della legalità, è decisamente una buona notizia. Ian forma i Blockheads, si fa rappresentare dal management dei Pink Floyd ed esplode. I successi cominciano ad arrivare, con canzoni come Billericay Dickie (che inizia con l'immortale battuta “Sono dell'Essex, nel caso non ve ne siate accorti”) e Wake up and Make Love to Me. E poi, naturalmente, Sex & Drugs & Rock & Roll, che magari non segna proprio la prima apparizione della formula (pare fosse già un modo di dire in uso), ma sicuramente rappresenta la codificazione di una frase destinata a diventare un luogo comune talmente diffuso da aver fatto dimenticare il suo autore.
Anche se in Inghilterra Ian Dury non se lo sono dimenticati affatto. La fine degli anni '70 è il momento di massimo successo per lui e per i Blockheads, con una sfilza di canzoni nella Top Ten, da Hit Me With Your Rhythm Stick al proto rap di Reasons to be Cheerful (nemmeno tanto proto, sentire per credere), e con la fama di essere il punk più amato dalle mamme. Certo la musica di Dury non assomiglia granché a quella di Sex Pistols e Clash, semmai lo si potrebbe considerare una versione pervertita e laida di Elvis Costello, un teppista cockney che adora giocare con le parole, un poeta derelitto che viaggia in un mondo su cui non splende mai il sole e la cui unica consolazione è data da accoppiamenti sudaticci e da un pugno di anfetamine. La musica di Dury è un misto di funky, rock 'n' roll classico (dopotutto una sua canzone si chiama Sweet Gene Vincent), riff da pub, reggae (Clevor Trever), rumorismi da fiera di quartiere. Il tutto cantato con uno spirito direttamente derivato dalla grande tradizione del music-hall inglese. Anche se non mancano gli assalti a testa bassa, realmente punk, come l'inno Blockheads e la furibonda Blackmail Man.
Per capire il personaggio, un ultimo aneddoto. Negli anni '80, gli viene chiesta una canzone per l'anno del disabile dell'ONU. Ian, che da tempo ormai faceva attività benefica e di animazione con i bambini handicappati, scrive la canzone più scorretta possibile, per sbeffeggiare il buonismo da lavacoscienze dell'iniziativa. Il titolo? Spasticus Autisticus. E la canzone è proprio quello che sembra ovvero la rivincita degli spastici, novelli Spartacus (queste erano le geniali rime di Dury) in rivolta contro i “normali”, che fanno l'elemosina agli storpi e ringraziano ogni giorno Dio di non essere come loro. Naturalmente, la BBC bandì la canzone.
Ian è morto nel 2000 e molti lo ricordano come una figura decisiva nella cultura pop britannica (non ultimo Simon Reynolds). Chi volesse conoscerlo da vicino, il poeta cockney con la stampella e la faccia truccata, lo storpio sexy, il punk da music hall, il cantore antirazzista dei bassifondi di Londra abitati da storpi irlandesi, ebreo-scozzesi e greco-pakistani, il frequentatore di pub dell'East Side che prende in giro Noel Coward, può recuperare il bel biopic dell'anno scorso di Mat Whitecross, con Andy Serkis nella parte di Ian. Il titolo, manco a dirlo, è Sex & Drugs & Rock & Roll.






mercoledì 30 novembre 2011

Iper-stasi, ovvero scolpire il tempo immobile


Ed ecco l'iper-stasi. Per molto tempo la cultura si è mossa con lentezza pachidermica. Le novità del pop arrivavano a passi lunghi, con la placida temporalità dilatata degli spostamenti tettonici. L'attualità cambiava lentamente, il ciclo del mutamento era lungo. Le traiettorie del pop non potevano essere osservate a occhio nudo perché, semplicemente, i loro spostamenti erano troppo lenti e regolari per essere colti in presa diretta. Ma, dice Reynolds, il movimento in avanti era costante e progressivo. L'idea che quello che il domani sarebbe stato più ricco di oggi. Semplicemente perché sarebbe stato diverso. Ogni tanto arrivavano sismi improvvisi e lo spostamento diventava evidente. Il punk, l'apparizione dell'hip hop. I Velvet Underground o Pet Sounds, Loveless o la Jungle, Dylan o il Post-punk. Qualcosa cambiava e tutti se ne rendevano conto, ma l'esplosione del cambiamento era generata da una sorta di potente e irresistibile accumulo energetico generato dal movimento sotterraneo e di lungo periodo. La musica pop, anche quando sembava immobile, continuava a premere in avanti, in modo irresistibile. La pressione del terreno generava affioramenti di diamanti. Le rocce si sgretolavano, colpite da ondate successive. Forse non vedevi il cambiamento, ma sotto sotto sentivi che alla fine la marea avrebbe avuto ragione della stasi rocciosa.
Nell universo iper-statico della connettività illimitata, tutto avviene in modo frenetico. L'immobilità è percorsa da strane vibrazioni. Niente sta davvero fermo, ma tutto sembra muoversi in cerchio. La cultura del sampling e del loop è davvero un emblema perfetto della nostra epoca: l'idea che il passato – anche quello appena trascorso – sia un deposito di codici dai quali attingere frammenti ricombinabili a piacimento. Codici che si ripetono in cerchio, perfettamente a tempo, sequenze di bit che plasmano in un flusso di metallo liscio la ruvidezza e l'attrito del suono analogico. Anche l'errore è previsto dal sistema come effetto di profondità. Ariel Pink che sommerge sotto nebbie di disturbo i suoi riff e le sue melodie. Gli Hauntologisti che generano paesaggi sfocati. La psichedelia dissolta attraverso le abrasioni del feedback. È l'effetto instagram: la fotografia retro creata digitalmente. La simulazione del passato come modo per staccarsi dal presente e non pensare al futuro. DJ Shadow, il profeta sampledelico, che costruisce un disco di soli suoni ripresi e riusati, mentre Dangermouse mette in mash-up i Beatles e Jay Z creando il Grey Album. Kanye West che riprende i Daft Punk che riprendono qualcun altro. Il gioco dell'influenza come guscio nel quale raggomitolarsi, tranquilli, fetali, aggiornando pagine, mettendo in pausa un vecchio video su Youtube, skippando canzoni, costruendo librerie sonore su misura per la nostra disponibilità intermittente di tempo, twittando in tempo reale, uploadando la mostra musica preferita.
William Gibson ha parlato, a questo propositò, di a-temporalità radicale: una temporalità bloccata che sembra fatta per favorire il consumo di prodotti che stanno tutti sullo stesso piano temporale, e rispetto ai quali è difficile introdurre un criterio di precedenza e successione. Come succede al lavoro quando le urgenze e le attività da svolgere si accumulano, la cosa più difficile diventa definire delle priorità. Cioè compiere delle scelte.

martedì 15 novembre 2011

Simon Reynolds su Retromania


Sul blog che ISBN ha dedicato a Retromania è uscita in due parti l'intervista fatta (anche con il mio zampino per un paio di domande) a Reynolds. Il nostro riesce come sempre a non rispondere in modo scontato e offre qualche spunto ulteriore rispetto al suo libro. Per capire la serietà di Reynolds in queste cose, provate a confrontare qualche intervista recente: le risposte non sono mai buttate là o scritte col pilota automatico. Prova, se ce n'era bisogno, di grande professionalità e di rispetto per gli intervistatori. Quando qualcuno ha qualcosa da dire, questo è il risultato...

Leggi la I parte dell'intervista
Leggi la II parte dell'intervista

domenica 6 novembre 2011

Elogio di Giorgio M.


Riprendendo un commento di @casadivetro in cui si lamentava l'assenza di Moroder da Retromania, provo nel mio piccolo a rimediare postando qualche suo classico. In effetti, il baffuto di Ortisei, oltre ad aver praticamente inventato l'electro-pop con la sua versione sintetica della musica disco (la pietra miliare è naturalmente la multiorgasmica I Feel Love cantata da Donna Summer), ha lanciato uno dei pochi generi che vedono un apporto originale dell'Italia alla musica dance e pop, cioè l'Euro-Disco, con la successiva incarnazione Italo, ovviamente. Reynolds, che di Moroder parla in qualche passaggio di Energy Flash, lo colloca in questo senso tra i precursori della House di Chicago. Poi, non contento, il genio tirolese ha compiuto formidabili scorribande a hollywood, incidendo a forza il suo nome in molti momenti ormai infiltrati nell'immaginario collettivo: basta pensare a Richard Gere in completo Armani che corre per le strade di LA sulla sua spider nera, all'inizio di American Gigolo, con "Call Me" dei Blondie (prodotta e in parte scritta da Moroder) che accompagna i titoli di testa; oppure a un assoluto goiello di esagerazione hollywoodiana come "Take My Breath Away" suonata dai Berlin: piena estetica ottanta quella di Top Gun, ma quantomai attualissima con le riattivazioni hypnagogiche e Chill Wave del verbo sintetico e delle visioni eighties.
Per descrivere la sua musica mi viene da pensare a dei Kraftwerk cafoni e ipersessuati, con un immaginario che sta tra Scarface di De Palma e l'Ispettore Derrick, una perfetta fusione di sensi e suoni artificiali, camicie con colletti enormi e collane d'oro in mezzo a cristalline melodie elettroniche, come suggerito dall'intreccio di vocoderismi, quattro quarti disco, scale sintetizzate, melodie tirolesi e vocine maliziose della esageratissima "From Here to Eternity" del 1977, talmente piantata nel suo tempo da poter essere un pezzo di due giorni fa. O penso all'altro gioiello del periodo, quella "E=MC2" (con tanto di "Thank You, Albert" finale) che pare un'anticipazione dei Daft Punk di Discovery. Certo, il nostro, da buon artista totale, non ha mai rifiutato di confrontarsi con momenti di terrificante kitsch nazional-popolare (vi dice niente "Notti magiche, inseguendo un gol..."?), ma questo contribuisce in un certo senso alla sua statura di icona culturale assoluta. E fuori da ogni retorica vintage, il tema di Fuga di mezzanotte è un capolavoro inarrivabile del pop elettronico e della musica da film, e basterebbe questo per far rimanere nella storia (nella leggenda c'è già) il signor Giorgio Moroder.



  





mercoledì 26 ottobre 2011

GARAGE SALES


Da che punto nel tempo o da che zona cronologica ci parlano gruppi come i White Stripes (ormai sciolti) o i Black Keys, che si rifanno in modo esplicito a stilemi musicali che fanno parte della tradizione rock? Garage blues reimpiantati nel tempo presente, che arrivano ai piani alti delle classifiche, ma che appaiono - alla fine - rassicuranti e già sentiti. Sappiamo bene cosa troveremo nei loro dischi, una sorta di classicismo dell'immondizia, suoni sporchi al punto giusto. È un buon esempio dell'estetica da mercatino dell'usato di cui Reynolds parla rifacendosi in parte al critico d'arter francese Nicholas Bourriaud, con il suo concetto di Post-produzione: opere d'arte che si basano sul riciclo e sulla rimessa in circolo di tratti stilistici ormai consegnati al junkyard della storia, con l'artista che interviene sempre più in fase di post-produzione, modificando e mescolando oggetti, suoni e immagini pre-esistenti.
E quindi, nel nostro caso, ascoltiamo canzoni che potrebbero essere state scritte in un momento qualsiasi tra il 1965 e il 2010. O anche prima. E il dato sconcertante è che questi artisti diventano icone di stile, produttori e autori di successo (chi rinuncerebbe nel 2011 a un cameo di Jack White?). Persino, con Seven Nation Army, i White Stripes sono arrivati all'inno da stadio (certo un effetto non voluto). I Black Keys, per parte loro, concedono gioielli di retro-blues a innumerevoli spot pubblicitari (non c'è ovviamente alcun moralismo, solo la strana sensazione che si prova nell'ascoltare certi suoni del passato in rapporto a, poniamo, un cellulare di utlima generazione). Senza dimenticare altre declinazioni del verbo garage, da quella psycho-blues dei Black Rebel Motorcycle Club, al garage punk degli Hives, fino a gruppi che guardano più all'hard anni settanta come Wolfmother e Jet: tutte band che in un modo e nell'altro hanno avuto momenti di grande successo attorno alla metà degli anni 2000.
Si assiste in modo esplicito all'abbandono dell'ideale modernista, che consisteva, per dirla in breve, nella ricerca dell'evoluzione e del progresso come segno di autenticità. I dischi di queste band diventano dei modi per marcare il presente, entrando magari nelle classifiche dei dischi dell'anno e del decennio, ma la marcatura porta con sè il carico di una tradizione esplicitamente assunta come più autentica dei suoni di oggi. Viene quindi considerata "centrale" e significativa per il nostro tempo quella che appare una specie di fissazione manieristica su determinate epoche e suoni. Anche se va detto che i White Stripes il meccanismo retromaniaco lo usavano in modo così esibito da essere allo stesso tempo dentro e fuori tutto questo sistema retrosonoro. I giochi con i colori, i video citazionisti e simpaticamente postmoderni di Michel Gondry, le battute sulla relazione fintamente ambigua tra Jack e Meg, la spudorata povertà del loro esibirsi come icone stilose di un passato povero ed essenziale: tutto concorre a fare dei White Stripes la massima incarnazione dei paradossali intrecci tra passato e presente che hanno caratterizzato gli anni zero (e che caratterizzano, magari con sfumature diverse, gli anni dieci).
Per questo intreccio tra rinascita garage, estetica da mercatino dell'usato, riciclo di carillon della zia e di vinili del nonno, trendismo vintage ed estetica cool pubblicitaria, propongo di usare il termine "Garage Sales", richiamando i mercatini fatti per svuotare il garage di cose che non si sa più dove mettere. Che, per chiudere il cerchio, sono un'istituzione tipicamente americana, vista in innumerevoli telefilm, perciò a loro volta un termine "di recupero".

lunedì 10 ottobre 2011

ANGELI CON LA FACCIA SPORCA: GLI STROKES


In tutta questa storia di effetti retromaniaci trovo ad esempio che poco si sia parlato di uno dei manifesti estetici del genere, cioè del booklet di Is This It degli Strokes (album che per molti sta fra i primissimi degli anni zero), con la ricreazione di un immaginario vintage trash, da CBGB misto a spacciatori da telefilm poliziesco o film exploitation di drogati: tutta una storia della musica e del pop fine anni settanta evocata da foto in stile segnaletica al commissariato che danno il tono al disco prima ancora di ascoltarlo. I primi piani dei cinque del loro entourage sono un'anticipazione di tutta l'estetica indie chic che impera sulle riviste alla Rolling Stone: Julian Casablancas sembra un teppistello strafottente ingabbiato alla fine di una notte di bagordi, Albert Hammond ha la sigarettina all'angolo della bocca e i riccioli naturali spettinati ad arte, e gli altri mugshot polizieschi non sono da meno, anche se rimane nel cuore soprattutto il volto da commissario Ingravallo del loro misterioso guru, l'ineffabile JP Bowersock, versione debosciata di Kotter dell'omonimo telefilm anni settanta.


E poi la musica stessa, tra Velvet e Television, molta Patti Smith, sporcizie urbane e suoni pesantemente filtrati e compressi - deviati e impolverati ad arte - si propone come un catalogo di stili e miti del passato, alcuni esplicitamente assunti come influenze, altri presenti forse come suoni assorbiti in modo inconscio. Indie sporco, da New York criminale e criminosa, tra immaginario di loft e raffinatezze in giubbotto di pelle (o forse perversioni cuoio e corde, alla Cruising), in un disco che re-iscrive di prepotenza il rock chitarristico nelle classifiche e nel cuore della musica indie. 


Ma poi - lo mostra bene SR - quella New York, la culla autentica e originaria del protopunk, era già un discorso di doppio livello. Ad esempio nell'iperletterarietà di Patti Smith, Rimbaud in gita alla grande mela, con la sua voglia di riprendere certi discorsi interrotti della tradizione rock; o nella stessa immagine consapevolmente pop e retro dei Ramones con il loro punk che nasce dall'elettrificazione del surf e dei Beach Boys con dosi generose di bubblegum. Senza dimenticare che Lenny Kaye - uno dei perni della band di Patti Smith - era già stato artefice con Nuggets della prima filologia garage rock, proponendo l'idea che nelle pepite sepolte di gruppi meteora degli anni sessanta si potesse ritrovare l'essenza genunina del rock del passato. Proprio quella New York era allora già un discorso su altro da sè, sul passato, su quello che stava accanto, su cose lette e trovate ed ascoltate altrove. Ed è perciò tanto più paradossale che periodicamente si ripresenti l'epica del CBGB e la mitologia dei Ramones fotografati in un vicolo con il chiodo consunto, i jeans stracciati e le All Star distrutte ai piedi. Cioè il perfetto paradigma di stuoli di neo-alternativi alla moda che si possono incontrare in qualunque concerto, nemmeno troppo indie.
Ecco allora che gli Strokes sono davvero l'emblema perfetto di questo rock al secondo grado che più che esibire i suoi riferimenti culturali li indica in modo così sfacciato da risultare persino simpatico. Che poi i cinque fossero da subito tutti fighetti e pieni di soldi, con tutta la storia dei primi incontri alla boarding school in Svizzera, per me aggiunge sapore alla faccenda. Gli Strokes simbolo del Rock non sono poi tanto distanti dai Ramones figli della borghesia ebraica che si propongono come fumetto della ribellione (e infatti non mancano i comic book con i quattro protagonisti): e così è l'idea stessa di autenticità ad essere rimessa in discussione, e non basta notare che dopotutto alcuni di loro erano davvero tossici e spostati. Cosa vuole dire, allora, essere autentici quando il passato del rock e del pop convive sotto forma di archivio a tutti accessibile con un presente fatto di download illimitati e di suoni che vengono riattivati come effetto retro e vintage in qualunque canzone che si propone come attualissima new thing?

lunedì 26 settembre 2011

THIS IS THE (NEW) AGE OF AQUARIUS

© miguelteixeira on Flickr


In questi ultimi tempi l'effetto retromaniaco ha fatto sì che anche alcuni generi improbabili stiano riemergendo dai bauli polverosi in cui erano stati confinati. Chi l'avrebbe mai detto che anche la musica new age, quella da sottofondo kitsch delle cassette per meditare, tutta piogge di sintetizzatori analogici, suoni di onde che si infrangono sul bagnasciuga e melodie atmosferiche, sarebbe riemersa come tendenza degli anni 10 del nuovo millennio? Un'altra imbarazzante passione che alcuni di noi ora possono rivelare senza rischiare di attirarsi gli sguardi di compatimento degli amici e lo stigma dell'esclusione sociale.
C'è comunque molto di più, oltre alle voci impostate da induzione ipnotica e i cristalli da appendere al collo. Voli cosmici sulle tracce dei Tangerine Dream, percussioni etniche immerse in fumi di incenso, olii essenziali spalmati sulla schiena mentre in tv và Il Signore del Male di John Carpenter interrotto dalla pubblicità di libri sulla crescita personale. Vapori ipnagogici e modellini dello Space Shuttle. Il tempo, come dice Reynolds, ha perso la sua direzionalità, e aprendo una porta potremmo entrare nella cameretta di un nerd che sta studiando le tecniche di controllo mentale della Dharma Corporation di Lost oppure ritrovarci una libreria degli anni settanta a comprare i libri di Peter Kolosimo. Questa forma di new-new-age (come la definisce Maurizio Blatto nella sua intervista a Reynolds uscita su Rumore di questo mese) è parte di quell'ondata di "Spectral Americana" di cui il nostro Simon parla nel capitolo di Retromania "Fantasmi di futuri passati": alcuni dei musicisti della nuova era dell'Acquario rientrano nel gran calderone del pop hauntologico (o chill-wave, o glo-fi, a seconda della sfumatura che preferiamo), una forma musicale dai contorni mobili e amebiformi emersa negli ultimi due-tre anni negli Stati Uniti e caratterizzata, un po' come la britannica hauntology, dal recupero di frammenti musicali del passato offuscati e semicancellati. Una musica che attraversa certe dimensioni temporali in uno stato stuporoso da sonnambuli e che riattinge soprattutto al pop anni ottanta radiofonico, tra Hall & Oates, i Foreigner e la colonna sonora di Miami Vice. Il tutto evocato attraverso placide nebbie di disturbi radiofonici (come in Ariel Pink) o tramite la ri-creazione della condizione di chi è stato bambino negli anni ottanta. Un'estetica fatta di vecchie vhs di fantascienza, frammenti di exotica che si rifanno più a Magnum P.I. che alla lounge music anni sessanta. Elettronica analogica da kraut rock mescolata a teen movie con ragazze in bikini, come l'allucinazione di Molly Ringwald in un porno patinato o un remake psichedelico di Robocop. Tra i rappresentati della linea hypnagogica, troviamo gente come James Ferraro (già con gli Skaters), i fanatici del loop cosmici Emeralds, Toro-Y-Moy, col suo soul synth-pop pieno di venature black, i disneyani acidi Ducktails e il ronzante e spaziale Oneohtrix Point Never, con i suoi concept di astronauti nella guerra fredda. I nuovi fanatici della new age vengono da qui, mescolando kitsch e stati alterati di coscienza e creando degli anni ottanta in bassa fedeltà, oggetti di amore della psiche sognante che non sono mai esistiti. Su tutti, i Dolphins into The Future e gli Stellar Om Source, con i loro panorami di foreste da depliant di viaggio conditi con cascate di sintetizzatori e frammenti di melodie cristalline.
Allora, tiriamo fuori dal ripostiglio la nostra vasca di deprivazione sensoriale, accendiamo una decina di candele profumate e apprestiamoci a fluttuare nello spazio.

lunedì 19 settembre 2011

RETROMANIA, UN TENTATIVO DI RECENSIONE

Il 15 settembre scorso, Retromania è uscito anche in versione italiana per ISBN edizioni.
Dopo averci scritto sopra tante cose, ecco una piccola recensione.

© Haroon Mirza, Evolution of a revolution (2011) 


Retromania è un libro sul passato e il presente del pop, con una domanda sullo sfondo: cioè se un futuro per il pop sia ancora possibile. La musica pop ha fino ad ora descritto un certo rapporto con il presente e con le possibili trasformazioni affettive e psichiche di una categoria che potremmo identificare con l'adolescenza (reale e immaginaria) e con lo stato di stupore e novità che si vive quando si scopre qualcosa che parla –attraverso suoni e rumori – al nostro modo di stare al mondo. Elvis, Dylan, i Beatles, i Velvet, i Kraftwerk, il punk, il krautrock, il post-punk, la techno hanno aperto fratture nella linearità del tempo e, ogni volta – dopo di loro – le cose non sono più state le stesse: sono stati eventi che hanno impresso nuove curvature al presente. Nel momento in cui, all'apparenza, tutto è stato già detto, la storia del pop come razzo lanciato verso il futuro sembra però fermarsi e la spinta all'innovazione, la vocazione profondamente modernista del pop e del rock, potrebbero essere solo un ricordo da evocare dalle nebbie del passato.
Quella che è sembrata una grande occasione, vale a dire la possibilità di accedere in tempo reale, attraverso la rete, all'immenso archivio della musica prodotta negli scorsi decenni, sembra ora congelare il tempo del pop in una specie di eterno rimbalzo tra presente e passato. Le coordinate dell'oggi musicale sono inscritte nella rete di continui rimandi – tra citazioni, omaggi, pastiche, parodie, adorazioni, ossessioni – di epoche passate. Il musicista, sempre più consapevole della tradizione che lo ha generato, diventa un curatore, un selezionatore, un commentatore che replica, campiona e mixa pezzi di musica di un tempo trascorso. Si tratta di un atto d'amore, certo, ma un amore che può diventare cannibalico, distruggendo l'oggetto della sua passione, generando piccole paranoie e manie, portando il fan e il musicista a soffermarsi in modo quasi feticista su certi suoni, certe ere, certi ritmi, per riportarli in vita attraverso procedimenti che hanno a che fare con l'occultismo e la psicosi non meno che con la tecnologia.
Reynolds esplora questa paradossale temporalità retroattiva, la retromania che fa correre in avanti con gli occhi fissi nel retrovisore e con il rischio di andare a sbattere contro il muro della stasi e dell'immobilità (o contro lo schermo del pc, incapaci di guardare cosa succede fuori dalla finestra). Rievocando le retromanie che già hanno abitato come fantasmi il corpo del pop (dal Northern Soul alla rinascita mod, dal revival rock 'n' roll all'elettronica del dopoguerra, dal citazionismo di Stereolab e LCD Soundsystem all'elettronica fantasmatica di Boards of Canada e Broadcast, dalla fusione sampledelica di DJ Shadow alla furia arty dei Sonic Youth), Reynolds porta il lettore in un lungo viaggio su e giù per lo spazio-tempo, guidato dalla passione del fan e dal rigore dello storico sociale. E di fronte al business della memoria (gruppi che calcano i palchi come morti viventi, sontuosi cofanetti che rimpinguano le casse delle case discografiche) e a sottili operazioni retromaniache (il re-enactement come operazione estetica, i fantasmi di futuri mai realizzati della hauntology), Reynolds sembra porre una domanda radicale. È ancora possibile una musica che sia in grado di parlare all'urgenza del qui e ora o siamo ormai condannati a un turismo musicale virtuale, senza il brivido della scoperta e della novità, guidati solo dalla nostra capacità di orientarci nel grande archivio del passato?






RETROMANIA
Simon Reynolds
480 pag. PAGINE | 26.90 EURO
Data di uscita: 15 settembre 2011
Traduzione: Michele Piumini

martedì 13 settembre 2011

INFLUENZE

© Tyler Morgan's blog

Non è passato poi molto tempo da quando definire un musicista o una band “derivativi” equivaleva a un insulto dei peggiori. Derivare in modo esplicito da qualcun altro significava essere poco originali, imitare, prendere in prestito suoni e stili del passato, essere incapaci di affrontare le sfide del presente musicale, manifestare una tendenza museale e conservatoriale opposta all'idea di creatività assoluta. Soprattutto, voleva dire non essere in grado di lanciare suoni davvero nuovi, capaci di spingere la musica verso il futuro. Se osserviamo le creazioni musicali degli ultimi anni, nota Reynolds, il fatto di indossare e manifestare in modo esplicito le proprie influenze è un modo per essere al passo con i tempi.
Pare quasi che le cose si siano ribaltate: se non sei derivativo, se non mostri con chiarezza chi sono i tuoi maestri, se non fai in modo che i predecessori e gli antenati si possano sentire costantemente all'interno della tua musica, non sei davvero attuale. Provo a fare un po' di nomi (alcuni li riprendo da Reynolds, ma altri ne aggiungo io e l'elenco potrebbe continuare). I soliti, da Jesus & Mary Chain a White Stripes, da Primal Scream a Franz Ferdinand, passando per  Strokes e Devendra Banhardt. Ma quante cose potrebbero stare nell'elenco? Si potrebbe con un po' di pazienza creare una tavola degli elementi pop-rock, per poi chiedersi quale combinazione manca. Stone Roses (Byrds con molto groove), Spiritualized (psichedelia + gospel + wall of sound alla Spector/Brian Wilson), Interpol (Television + Joy Division), Setreolab (Kraut + Françoise Hardy), Arctic Monkeys (Kinks + Smiths con l'acceleratore schiacciato). Ci sono persino i gruppi derivativi che vanno a periodi, tipo Picasso, come fanno gli Horrors (Cramps + Seeds prima, My Bloody Valentine + Krautrock poi). Oppure, abbiamo band come gli Arcade Fire che attraversano buona parte della tradizione rock e indie creando una ricetta trascinante (una specie di epic-indie wagneriano) e inconfondibile, come se Neil Young o Springsteen fossero passati attraverso il grunge e il post-rock (e non viceversa).
Questo elenco sommario è interessante per un motivo ben preciso. Se andate a guardarvi gli elenchi dei migliori dischi – i più rappresentativi – degli anni novanta o degli anni zero, questi artisti li troverete praticamente tutti (attenzione, alcuni sono dei capolavori, vedi Spiritualized, Arcade Fire, Stereolab o Arctic Monkeys, ma questo non elimina l'effetto derivativo). Quindi ecco qui la cosa che fa pensare: cosa succederà quando l'intervallo della nostalgia si assottiglierà ulteriormente, portando i nuovi musicisti a essere influenzati in modo diretto da musicisti che nascono già come fieramente derivativi? La categoria di originalità avrà ancora senso di fronte al trionfo di un pop al secondo grado?





venerdì 9 settembre 2011

LA CHIUSURA DEL PORTALE

© Archigram Archival Project

In prima superiore, durante una visita alla biblioteca scolastica (una biblioteca che per qualche oscura ragione non era accessibile agli studenti e che non avrei mai più rivisto fino all'ultimo anno), mi fiondai sullo schedario alla ricerca del nome di uno scrittore. Individuata la collocazione dei libri di quello scrittore, scelsi il più grosso e lo presi in prestito. Al termine di quella fugace visita, sotto gli occhi stupiti dei miei compagni di classe, stringevo sotto il braccio il corposo Meridiano di Oscar Wilde, come se fosse stata la cosa più figa del mondo. Dato che in quel periodo non ero quello che si potrebbe definire un lettore forte (di letteratura, per quanto riguarda i fumetti altra storia...), l'episodio aveva dell'incredibile. Cos'era successo? Era successo che in Cemetery Gates, contenuta nell'album degli Smiths The Queen is Dead, che a quel tempo consumavo, Morrissey cantava "Keats and Yeats are by your side, while Wilde is on mine...". Verso evocativo che mi aveva fatto pensare a quei tre come se si trattasse di custodi di saperi segreti, sorta di re magi della poesia inglese, sicuramente appassionanti da leggere e ricchi di tesori iniziatici. Purtroppo, arrivato a casa col Meridiano di Wilde in mano, presi la decisione di iniziare la lettura non dal Ritratto di Dorian Gray, che qualche anno dopo avrei scoperto e apprezzato, ma dalla luttuosissima e tragica Ballata del carcere di Reading, titolo che ancora oggi non riesco a pronunciare senza un brivido accompagnato da una sensazione di soffocamento. Fine del breve idillio con Wilde, e sarebbero passati anni prima che considerassi ancora uno status symbol tenere un libro in mano...
La musica pop e rock, anche a livello tematico, è stata a lungo un portale, un ingresso su altri mondi. Mark E. Smith dei Fall (il nome della band viene da La Caduta di Camus) che parla di Dostoevskij o dei racconti di fantasmi di Montague Rhodes James, gli Scritti Politti che intitolano una canzone Jacques Derrida. I Talking Heads che prendono il testo di I Zimbra da Hugo Ball, uno dei fondatori del Cabaret Voltaire, oppure versi come "Lode a Mishima e a Majakovskij" salmodiati da Giovanni Lindo Ferretti. E ancora, titoli come Truman Capote o Saul Bellow (rispettivamente di Künnecke & Smukal e Sufjan Stevens). Un nome o un riferimento in una canzone potevano scatenare una curiosità, spingere a una lettura. Far venir voglia di...
Si parlava del mondo esterno, di quello che accadeva fuori della musica, anche quando si parlava di letteratura. In fondo, scopate, passioni, visioni o letture erano comunque temi della vita praticata (a volte) o sognata (più spesso), dell'adolescente. Oltre all'incontro (sfortunato) col Wilde della terrificante Ballata del carcere di Reading (altro brivido...) ricordo la scoperta di Lovecraft stimolata dai Metallica di The Call of Cthulhu e di The Thing That Should Not Be. Apparizioni di nomi come piccoli sogni di mondi possibili, che in un'era pre-internet erano spesso solo suggestioni vaghe, curiosità da soddisfare a scoppio ritardato, perché mancava la materia prima. Quindi c'era un rapporto con il desiderio, con la ricerca, con la mancanza da colmare.
Ora, dice Reynolds, la musica sembra parlare soprattutto di se stessa, attraverso la ricerca di suoni in grado di evocare sapori passati, con il ricorso a un lessico caratterizzato temporalmente, ad abiti vintage, a immagini e immaginari legati a un certo periodo della storia della musica pop. Si decide di suonare in un modo ben preciso, ed ecco centinaia di weird folkers, neo kraut, riattivatori del verbo sabbathiano attraverso lo stoner, integralisti del thrash metal (ma non hanno mai suonato così bene, al tempo, quei dischi), scopiazzatori devoti della linea Stones-Stooges, cultori di musichette da programma di utilità pubblica inglese, riattivatori di Punk Funk (vedi Franz Ferdinand) e molti altri esempi. Basta guardarsi attorno e ascoltare. Si costruisce il proprio essere musicisti con abiti trovati in giro, smessi da altri. E qui sta il punto, dice Reynolds: un tempo, il rock parlava dell'esperienza del teenager, mentre oggi la musica sembra parlare soprattutto di altra musica. Dal commento dell'esperienza vissuta al commento del commento, in una sorta di deriva talmudica, in cui tutto sembra essere una questione di note a piè di pagina di un testo che è già stato scritto. In un certo senso, è come se il portale su altri mondi si fosse chiuso e la musica si proponesse come l'unico mondo possibile.







mercoledì 7 settembre 2011

RIPETIZIONI 3: IL BREAK MUTANTE

A partire dai due post sul tema (qui e qui), si possono distinguere due forme di ripetizione che forse aiutano a sciogliere alcuni dei nodi di Retromania. Propongo di fare una distinzione tra

  • Una riproduzione del passato, che si basa su criteri mimetici e parte dalla constatazione che un determinato modo di far musica ormai fa parte di un vocabolario sonoro acquisito e accettato, disponibile a tutti. È la ripetizione passiva, ormai alla portata di chiunque grazie all'immenso archivio sonoro a disposizione dell'ascoltatore e all'accessibilità di programmi che permettono di manipolare il suono. Rappresenta l'atteggiamento più propriamente retromaniaco e nostalgico. Può produrre buona musica, ma difficilmente produrrà nuovi suoni.
  • Una ripetizione della novità dell'evento, cioè la riconnessione con la parte di evento che non è stata completamente attualizzata e che può insistere, sotto forma di ulteriore novità, sul nostro presente. È la ripetizione creativa, che cerca di ritrovare la spinta alla novità del suono di partenza per farlo entrare in risonanza con contesti e territori musicali inediti. Il rapporto con il passato esiste, ma non ha nulla di nostalgico. Quelli che escono dal filtro della mutazione non sono copie o parodie postmoderne, ma nuovi organismi costruiti anche (ma non solo) con componenti di organismi del passato. Un passato che non ha ancora finito di lanciare i suoi segnali verso il futuro.

Faccio un esempio molto rapido: il break ritmico "inventato" da James Brown e dai suoi musicisti negli anni sessanta diventa in seguito il centro di propulsione della musica funky, grazie a musicisti come Sly Stone e George Clinton. Il funky ben presto si afferma come un vocabolario dominante, perdendo la sua forza di innovazione sonora e riducendosi a semplice codice di riproduzione stilistica. Il break di batteria allora migra, come un virus che diffonda il proprio frammento di codice mutante, entrando in altri organismi e facendoli ulteriormente mutare. Và a costituire l'ossatura ritmica di buona parte dell'hip-hop, sulla quale gli MC recitano le loro rime (come in Fight the Power dei Public Enemy, che contiene proprio un sample del break di batteria di Funky Drummer di James Brown, suonato da Clyde Stubblefield).
Se già con l'hip-hop il break cominciava a perdere la dimensione ipersessuata che aveva in James Brown per diventare strumento di rabbiosa rivendicazione politica, poco a poco si trasforma in una scheggia sonora autonoma e incattivita. Ecco allora nei primi anni novanta il breakbeat, la parte campionata e riassemblata che costituisce l'ossatura ritmica e la novità sonora della jungle. La frenesia e la frammentazione del ritmo fanno da specchio a una musica sempre più oscura. E ancora, gli stessi breakbeat - entrando negli anni zero - vengono rallentati e ulteriormente decostruiti, trasformando l'iperattività adrenalinica della jungle nella narcosi ritmica e nelle griglie di beat irregolari del dubstep. Da qui partono ulteriori linee di evoluzione, come nei pezzi di Zomby, in cui gli ultrabassi dubstep incontrano la musica da videogame e la techno, ricapitolando due decenni di musica da rave.
La storia continua...









giovedì 1 settembre 2011

RYAN MCGINLEY, LA DOLCE ALA DELLA GIOVINEZZA


Il fotografo Ryan McGinley lo conoscete se avete comprato Með suð í eyrum við spilum endalaust, cioè il disco dei Sigur Rós del 2008, quello con un gruppo di ragazzi che corrono verso le verdi colline dopo aver scavalcato un guard rail, con addosso solo le scarpe. Oppure, potrebbe avervi colpito la copertina de Il Regno Animale, romanzo d'esordio di Francesco Bianconi dei Baustelle. È la foto di una ragazza piuttosto androgina. A coprirla solo un coyote vivo, sulle spalle. Graffi sul ventre e sulle cosce. Per capire che non è una ragazza e avere, se siete etero, una conferma dei vostri gusti sessuali, dovete osservare bene, perché potrebbe essere anche un ragazzo bellissimo, mezzo elfo e mezzo alieno. La ragazza guarda in camera con uno sguardo leggermente strabico. L'asimmetria degli occhi la rende ancora più intrigante. E poi c'è il lupo, anche lui ha lo sguardo in camera. È un po' spaesato, non credo che gli capiti tutti i giorni di stare sulle spalle di una ragazza nuda.
Lo stile di Ryan McGinley è molto interessante ed è in assoluto equilibrio tra perfezione della resa estetica e leggero spaesamento indotto da cose che non dovrebbero stare assieme. I suoi nudi sono corpi e volti imperfetti, appena usciti dall'adolescenza, ma del tutto a loro agio nel muoversi in scenari naturali incantati. C'è una specie di vena atletica nelle sue ragazze che saltano e si tuffano, o che sembrano soffiate nella foto da un colpo di vento, nei gruppi arrampicati in cima agli alberi, nei ritratti con animali che sembrano spiriti guida non ancora staccati del tutto dal teenager che sta per diventare adulto. Ninfe ed elfi usciti da una rivista di moda che abitano in un mondo di boschi, laghi, stagni, erba, alberi, gufi, coyote, cerbiatti, pavoni, alligatori, ragni. I suoi modelli intrattengono con la natura un dialogo che sembra essere precluso a tutti noi e che durerà per un tempo molto breve. Un giorno smetteranno di parlare il linguaggio fatto di gambe troppo magre e muscoli allungati. I loro nervi si faranno spessi, le indecisioni delle forme prenderanno una direzione definitiva. La fine della metamorfosi.
A volte le foto, in un bianco e nero estremamente pulito o a colori, con aloni e margini sfumati che trasformano gli occhi e i seni - esposti alla luce del sole o della luna - in doppi eterei, metà corpo metà spirito, raccontano dialoghi segreti. Mi ricordano certe immagini di Larry Clark o di Gus Van Sant, trasfigurate in una sorta di incanto cosmico (credo sia questo che ha attratto i Sigur Ros). Sufficientemente ammiccante da piacere anche al mondo della moda (ha fatto tra l'altro campagne pubblicitarie per la Levi's),  McGinley è un cocco della comunità chic newyorkese e definisce le proprie opere come "un incontro tra fotografie di nudisti, porno vintage e le copertine di Sports Illustrated". Quello che mi inquieta e attrae, nei suoi lavori, è una vocina che sembra sussurrare e che dice "Guardateci, non sarete mai come noi, e anche noi – finché saremo vivi – non potremo mai più essere così belli".

Il sito di McGinley è ryanmcginley.com












venerdì 26 agosto 2011

DUE SIGNORI

Visto ieri sera a Villa Varda di Brugnera (PN) Iosonouncane, che ha eroicamente emesso piogge di beat e declamato litanie da TG4 nonostante l'assalto di torme di moscerini di tutte le taglie.




E poi Bologna Violenta, che con le sue intemperanze grind-black-techno-core da mondo movie ha fatto piazza pulita di ogni forma di vita volante e non.
Due signori che vale la pena di ascoltare.

giovedì 25 agosto 2011

RIPETIZIONI 2: LA RIPRODUZIONE DELL'EVENTO

Photograph: Studio lost but found (Frederik Pedersen).


Esiste negli ultimi anni tutta una linea di ricerca nell'arte contemporanea che lavora sulla ripetizione e la mutazione di opere precedenti. Penso, ad esempio, al famoso 24 Hour Psycho di Douglas Gordon. Il video, del 1993, è la proiezione del capolavoro di Hitchcok con i frame rallentati da 24 a circa 2 al secondo, con conseguente dilatazione del film a 24 ore. Angela Bulloch nel suo Solaris, monta i suoi dialoghi sulle immagini del film di Tarkovskij, mentre l'olandese Kendel Geers isola e mette in loop alcune scene di film famosi, come L'esorcista. E, in ambito puramente cinematografico, non è molto distante da questo il remake scena per scena dello stesso Psycho fatta da Gus van Sant. La ripetizione, il remake-remodel (per dirla con i Roxy Music), il riutilizzo delle immagini sembrano abitare lo spazio dell'arte del cinema contemporaneo come una possibile linea di sviluppo. Immagini che giocano con altre immagini, costruendo narrazioni e spazi di fruizione alternative.
Iain Forsyth e Jane Pollard, però, compiono un'operazione potenzialmente più dirompente perché si inseriscono all'interno di situazioni che contengono in sè la caratterizzazione di "evento", quindi situazioni uniche e non ripetibili (al contrario di un film che, per natura, esiste per essere riprodotto in situazioni diverse). Non lavorano solo con immagini, ma con immagini di eventi. Il secondo esempio può aiutarmi a indagare questo aspetto.
Dopo File Under Sacred Music (di cui abbiamo già parlato qui), i due artisti operano un altro tentativo di decostruire l'evento mentre lo si ri-crea. Si confrontano infatti con una leggendaria performance degli Einstürzende Neubauten all'ICA di Londra, finita in rissa. Si può ricreare il riot che avvenne nel corso del Concerto for Voice & Machinery del 1984? Tutti momenti leggendari che, come tutte le leggende, trovano la loro aura in una combinazione di irripetibilità e di ripetizione dell'evento leggendario attraverso il ricordo, la leggenda, il sentito dire. Il paradosso che sembrano esplorare Forsyth e Pollard è proprio questo: la ripetizione dell'irripetibile. Se l'evento, in quanto porta con sè una parte di imprevedibilità, è caratterizzato dal suo legame con il qui e ora e con il contesto, con uno spazio-tempo preciso, il tentativo di ripetere l'evento va necessariamente incontro allo scacco. Cosa si può ripetere quando qualcosa è avvenuto sotto forma di pura "differenza", cioè di rottura della continuità di una situazione? Dopotutto, Deleuze diceva che solo la differenza si può ripetere, solo l'intensità di un evento si può elevare allo stato di pura ripetizione, perché contiene in sè un margine che si sottrare alla semplice attualizzazione. Un evento – artistico o politico – non è una questione di attualità, perché non può essere ridotto ai codici di lettura del presente. Non accade semplicemente, ma insiste sul presente spezzettandolo in una serie temporale che continua a divergere. Solo la differenza si può ripetere e la differenza non può che ripetersi. Il re-nactement di un evento è allora questa forma di ripetizione sotto forma di immagine non composta, un modo di riaffermare la forza di scissione che l'evento ha introdotto nella temporalità comune e nelle percezioni abituali, vale a dire il fatto che è stato introdotto qualcosa che non era comprensibile secondo le chiavi di lettura e di ricezione precedenti.




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giovedì 18 agosto 2011

RIPETIZIONI 1– DA ZIGGY STARDUST AL NAPA STATE MENTAL INSTITUTE

Quasi incredibile il capitolo di Retromania sul re-enactement, vale a dire la riproposizione e ri-creazione di eventi e di situazioni legate alla tradizione pop e rock. A lavorare sul valore di performance di queste azioni sono gli artisti inglesi Iain Forsyth e Jane Pollard, che si sono specializzati in questo genere di intervento sul corpo e sulle icone del passato musicale. Tra le loro operazioni, la riproposizione dell'ultimo concerto degli Smiths prima dello scioglimento e il re-enactement dello show durante il quale David Bowie "uccise" il suo alter ego Ziggy Stardust. C'è un aspetto, soprattutto, che mi sembra interessante: per ricreare lo show – uno dei momenti che fanno ormai parte della leggenda del rock – vengono costruiti a posteriori dei connotati estetici legati a ricordi distorti e deviati, attraverso la mediazione di altri artefatti pop che hanno raccolto e archiviato la traccia dell'evento. Le luci dello show, ad esempio, sono virate al rosso, questo perché la memoria del concerto è stata tramandata dal film di Pennebaker che documentava la serata e che dava un tono rosso a tutte le riprese. Il vero ricordo è un ricordo distorto e imperfetto, infedele come tutti i ricordi e tanto più vero quanto più connesso alle "alterazioni originali". Anche chi c'era, a quel concerto, ora ricorda l'accaduto attraverso il filtro della mediazione tecnica e dell'immagine archiviata e depositata nel magazzino dellla storia. Si ricordano di un evento al quale hanno assistito in prima persona sulla base di ricordi "altrui" consegnati alla registrazione dello show. La registrazione modifica l'esperienza e la riproposizione dell'esperienza – la ripetizione esatta di un ricordo registrato, cioè di qualcosa che non può essere esatto fino in fondo – ha come criterio di validazione il fatto di essere fedele il più possibile al ricordo distorto, cioè al film di Pennebeker che è diventato il ricordo ufficiale, se non addirittura il ricordo "originale". Ad attestare l'autenticità è la fedeltà ai difetti e alle alterazioni della memoria.
(Qua si potrebbe forse fare un discorso sulla moda Instagram, cioè quelle foto scattate con iPhone che simulano effetti e degradazioni di macchine fotografiche d'epoca. Cosa ci ricorderemo rivedendo le foto di un evento che abbiamo registrato sotto forma di reliquia di un'altra epoca? Tema che merita di essere ripreso, credo).

E qui il passo oltre, davvero geniale. Forsyth e Pollard portano all'estremo la cosa con due re-enactement di eventi borderline. Il primo, intitolato File under sacred music, ripropone la registrazione di uno show leggendario dei Cramps tenutosi nel 1978 al Napa State Mental Institute, davanti a malati mentali autentici (non solo davanti, ma anche in mezzo a loro). Lo show ora esiste solo attraverso vecchie registrazioni e ri-registrazioni successive, fino ad arrivare a un vhs che nasce da un fan che ha effettuato la ripresa di una televisione che mandava in onda il concerto. Quindi, per ricapitolare: evento originale-registrazione dell'evento-copie successive della registrazione-trasmissione televisiva di una copia-ripresa con videocamera della trasmissione televisiva.
È quest'ultimo il documento "originale" dell'evento sul quale i due artisti hanno lavorato. L'operazione di re-enactement ha ricreato addirittura le condizioni di usura del nastro dovuto alle molteplici ri-registrazioni e ai passaggi da un format all'altro. Ma non solo: persino i bordi del televisore che veniva ripreso dalla videocamera sono stati inseriti nel video. Per ricreare l'evento sono stati "reclutati" veri malati mentali per impersonare (e quindi falsificare) altri veri malati mentali. Vertigine di questa simulazione di effetti di archivio che mira a rendere ripetibile qualcosa di assolutamente unico e originario. Non si ripete dunque l'esperienza, ma la registrazione dell'esperienza, creando una sorta di archivio parallelo delle tracce dell'evento, un doppio delle immagini e dei suoni archiviati, che in quanto doppio risulta bizzarramente originale. Anche se poi, nota bene Reynolds, i Cramps erano un gruppo di meta-rock, per quanto schizoide e convulso, con una passione da collezionisti per il rockabilly che li ha portati a creare una nuova forma di rockabilly post-punk e psicotico (chiamato appunto pyschobilly). Un'operazione meta-artistica di questo tipo è un modo per introdurre un terzo livello di frattura psicotica – dopo quella musicale e quella reale dei pazienti del Napa State – nell'evento.



The Cramps Live at Napa State Mental Hospital....Nuff Said


File under Sacred Music from Iain & Jane on Vimeo.

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mercoledì 10 agosto 2011

L'ARCHIVIO E I MORTI VIVENTI


La biblioteca londinese di Holland House, distrutta durante il blitz, nel 1941



Retromania, oltre ad essere una dettagliata incursione nelle zone di interferenza tra passato e futuro nella musica pop e rock, è anche un testo ricco di spunti teorici. Ad esempio, Reynolds cita Derrida, soprattutto il libro Mal d'archivio, in cui il filosofo francese si interrogava sugli strani effetti che si generano quando esploriamo lo spazio concettuale e operativo dell'archivio. L'archiviazione è per Derrida una condizione che accompagna ogni momento di produzione di conoscenza: è l'immenso apparato di registrazione e deposito del sapere e dei segni che accompagna e raddoppia la nostra cultura. Ogni volta che parliamo o che scriviamo, lasciamo delle tracce (su un foglio di carta, nella memoria o da qualche altra parte). L'effetto di archiviazione accompagna quindi ogni momento della nostra vita, dato che l'archivio è proprio lo spazio di deposito e recupero delle tracce e dei segni.
Il riferimento è quanto mai attuale, se pensiamo ai nostri hard disc pieni di canzoni e suoni che si ammassano spesso in modo caotico, separando il momento dell'accumulo della musica dal momento del consumo e della fruizione: quante volte ci capita di scaricare, legalmente o meno, dischi che non ascolteremo mai o ai quali dedichiamo solo un'attenzione laterale e parziale?
La pulsione di archiviazione può essere allora vista – provando a seguire le linee argomentative di Retromania – come una come spinta quasi ossessiva a immergersi nelle tracce (sonore in questo caso) dell'archivio per riprenderle e riattivarle: è un tentativo di ripetere il passato, fino a cercare di ritornare al cominciamento assoluto, alla purezza dell'origine. Per molti dei momenti retromaniaci esplorati da Reynolds, la domanda fondamentale sembra essere "Quand'è stato che le cose hanno iniziato ad andare male?": l'idea è sempre quella di recuperare un'origine non contaminata da quello che è accaduto dopo.
Che si tratti di un appasionato di rock 'n' roll, di un musicista di weird folk sulle tracce della Anthology di Harry Smith o dello stesso Reynolds che accumula vinili di elettronica sperimentale degli anni cinquanta, esiste alla base di tutto questo il desiderio di ritrovare un momento di purezza e di autenticità. E questo desiderio, per Derrida, si confonde con la pulsione di morte freudiana. Se la vita è costituita essenzialmente dalle continue deviazioni che costituiscono la nostra condizione di esseri finiti, la volontà di ritornare all'inizio è anche il sogno di scongiurare le deviazioni vitali e le contaminazioni che contraddistiguono l'esperienza, il tentativo di ritrovare lo stato previtale: accorciare o eliminare quella deviazione dalla morte che è la vita, o prolungare artificialmente momenti auratici, come l'adolescenza. Adorare l'archivio e cercare di riportarlo in vita è un modo per distruggerlo, cercando una relazione non mediata con il passato.
Questa forma di riattivazione dell'esperienza intesa come esperienza originaria – nel doppio senso di esperienza dell'origine e di esperienza nuova e inaugurale - rischia però di creare dei morti viventi. La condizione stessa dell'archivio rende impossibile l'idea di autenticità e di originalità, dato che la prima volta, la "nascita" dell'esperienza originaria, è già intessuta di spostamenti e slittamenti temporali. Quello che accade è che frammenti di passato e ricordi di esperienze trascorse vengono portati nel presente come se fossero vivi e presenti, ma possono apparire solo attraverso le distorsioni imposte dalla distanza temporale. Per questo c'è una vena sottilmente occulta in queste operazioni: riportare in vita il passato assomiglia molto a compiere un'operazione alla Frankenstein, al morso del vampiro o al prolungamento della non vita dei film di zombie di Romero. O all'evocazione di fantasmi che continuano a ritornare e ad infestare il presente.

lunedì 8 agosto 2011

JOE YAMANAKA (1946-2011), THE SUN SHINES EVERYDAY

Non vorrei che questo si trasformasse in un sito di necrologi, ma ieri – dopo Conrad Schnitzler – se n'è andato anche Akira "Joe" Yamanaka, leggendario cantante dei Flower Travellin' Band. Nella famosa foto di copertina di Anywhere, che Julian Cope ha usato per Japrocksampler, quella in cui una congrega di scoppiatoni giapponesi se ne va nuda in chopper lungo una strada desolata, Joe è il motociclista con l'incredibile capigliatura afro. Voglio dire: un giapponese afro nudo su una moto alla fine degli anni sessanta... Pare se la fosse fatta crescere dopo aver fatto parte del coro dell'edizione giapponese di Hair ed essere completamente uscito di testa per l'esperienza. Oltre che musicista è stato anche un attore, piuttosto popolare nella parte da duro.
Allora, se qualcuno non ha mai ascoltato i Flower Travellin' Band, occorre dire due cose. La prima è che sono proprio come li si vede in quella foto, talmente assurdi e selvaggi e caricaturali da risultare del tutto autentici. La seconda è che il loro secondo 33 giri, Satori, del 1970, è un pezzo di rock incandescente staccato da qualche pianeta e caduto sulla Terra – nelle viscere del monte Fuji, ovviamente – per rinascere sotto forma di mastodonte elettrico. Molto spesso, i gruppi giapponesi hanno preso quello che veniva fatto altrove portandolo a un livello di estremismo ulteriore. Satori ne è un perfetto esempio: suona come se una band di power rock alla Blue Cheer avesse collegato un sitar a un amplificatore e avesse deciso di suonare i Black Sabbath per un gruppetto di monaci shintoisti folli.  È blues elettrico portato oltre il livello della decenza. Un'odissea hard rock talmente potente da suonare quasi oscena. Le canzoni di Satori non hanno titoli. Solo I, II, III, ecc. Ascoltate "Satori I". Forse non è la voce che noterete, in un pezzo che è una specie di orgia chitarristica uscita da un mondo parallelo (Julian il druido ha definito il disco "un festival di adorazione della chitarra diretto dal maniaco Hideki Ishima"). Ma l'urlo iniziale di Joe Yamanaka, quello non lo dimenticherete. Nella successiva "Satori II", tra lancinanti riff orientaleggianti e una batteria rotolante e minacciosa, Joe recita una nenia che concilia l'oriente e il blues, con i versi memorabili: "There is no up or down/Death is made by the living/Pain is only intense to you/The sun shines everyday/Freedom freedom". Che sarebbe paccotiglia kitsch da stonati, se la musica non ti portasse oltre il sole, rendendo quelle parole bellissime.



domenica 7 agosto 2011

PER CONRAD SCHNITZLER (1937-2011)

Conrad Schnitzler era un outsider, anche all'interno di una scena musicale fatta di grandi eccentrici e visionari difficili da classificare, come il Krautrock. Tra tutti i grandi della musica cosmica tedesca, Schnitzler era forse il meno interessato al suono in quanto tale e inseguiva piuttosto le potenzialità di liberazione del rumore. Nato nel 1937, il suo percorso creativo nasce sotto il segno di Beuys, del quale fu allievo: per lui, arte ed espressione individuale hanno comunque una profonda vocazione politica. Nel 1967 è stato tra i fondatori, a Berlino, del Zodiak Free Arts Lab, uno degli spazi di incubazione della musica tedesca degli anni settanta.
Pur essendo per vocazione un esploratore solitario, Schnitzler "c'era" in almeno due dei momenti fondanti del genere: nel 1969 ha fatto parte della prima incarnazione dei Tangerine Dream, quella che ha registrato Electronic Meditation; nei primissimi anni settanta dei Kluster, con i due dischi Klopfzeichen e Zwei-Osterei, prima che Moebius e Roedelius mettessero la "C" al posto della "K", dando vita ai Cluster, tra i padri dell'ambient elettronica (per farla breve).
Schnitzler ha continuato rimanendo fedele alla propria vocazione sperimentale, con una produzione ricchissima e, tra edizioni limitate, Cd-R e collaborazioni, quasi impossibile da tracciare in modo preciso (in un anno ha fatto uscire 14 dischi, neanche Merzbow!) e mantenendosi su un'orbita imprevedibile, con opere piene di ronzii, rumori, esplosioni improvvise, percussioni ellettroniche, rumori industriali, segnali di cold wave, tracce di  primordiale elettronica obliqua, alla Autechre. A Conrad Schnitzler devono più di qualcosa avventure sonore come quelle degli Einstürzende Neubauten e dei Throbbing Gristle: buona parte del noise, dell'industrial e dell'elettronica sperimentale degli ultimi vent'anni viene anche dai suoi dischi.



venerdì 5 agosto 2011

LA VITA MODERNA

Ještěd Tower, 1968-73 Karel Hubáček, © Jiří Jiroutek

Perdiamo, dice Reynolds, la capacità di immaginare il futuro. Aggiungerei: c'è una difficoltà a mettere in moto i componenti del presente per immaginarli in una configurazione diversa e chiedersi cosa vorrebbe dire vivere all'interno di questa nuova configurazione. Facciamo fatica a immaginarci in situazioni diverse da quelle che già rientrano nel nostro orizzonte di possibilità attuale. E, in generale, se è vero che siamo spesso alle prese con il culto dell'attimo fuggente,  ridotto a fruizione superficiale del presente, c'è in effetti poco interesse per il potenziale di cambiamento presente nell'attualità, per l'idea che qualcosa possa accadere in un certo momento e  innescare il cambiamento futuro.
Reynolds, nei capitoli conclusivi del suo libro, affronta direttamente il tema del modernismo (e dei periodici boom modernisti) e riflette proprio sulla sensazione di vivere in un presente svuotato di senso del possibile, cioè della prospettiva di vivere in un futuro non riassorbibile nelle coordinate ordinarie dell'esistenza. Pare quasi incredibile, dal punto di vista della contemporaneità, ma è esistito un tempo in cui le potenzialità di cambiamento contenute nel futuro sono sembrate praticamente illimitate. Quando, nel dopoguerra, la spinta alla radicalizzazione estetica e all'innovazione continua tipiche delle avanguardie storiche si è associata alla necessità di pensare un mondo nuovo, capace di lasciarsi alle spalle le rovine della guerra, quello che è avvenuto è stato un progressivo momento di infiltrazione delle idee moderniste nei discorsi ufficiali delle ideologie dominanti. Nomi come quello di Le Corbusier o di Buckminster Fuller erano i simboli della voglia di costruire città e abitazioni che fossero all'altezza di questo sogno di rifondazione radicale. Le unità di abitazione di Le Corbusier, le gigantesche e fantascienfiche cupole geodesiche di Buckminster Fuller, gli spazi architettonici comuni dell'architetttura sovietica, le vertiginose torri radiofoniche e televisive (presenti dappertutto, da Londra a Berlino alla Polonia), ma anche le sperimentazioni elettroniche di Varese e Xenakis o le ricerche di Berio o Stockhauesn erano i segni di questo sconcertante matrimonio tra progettazione e rivoluzione, tra tecnologia e spazi umani, tra vita nelle città e sogni cosmici.

 Le Corbusier, Plan Voisin per il centro di Parigi

Uno degli edifici più incredibili mai costruiti è stata senza dubbio la spettacolare e inquietante torre per le telecomunicazioni del monte Ještěd, nell'allora Cecoslovacchia. Progettata da Karel Hubáček e costruita tra il 1968 e il 1973 aveva la parte superiore fatta interamente in fibre di vetro per consentire una trasmissione perfetta del segnale e spazi interni abitabili – dal sanatorio per burocrati all'hotel di lusso – che riflettevano uno stile che evoca immagini sconcertanti: un salotto lounge spaziale progettato dal bauhaus e inserito nel ponte di comando di un'astronave sovietica, che si può immaginare abitato dai fantasmi di spie e scienziati atomici. Perfetta combinazione tra ammonimento monumentale sull'onnipresenza eterea del potere e immagine di una società in cui tecnologia e comfort potevano stare insieme: un futuro mai realizzato, ben racchiuso dal design ultramodernista della torre. Che poi molte di queste costruzioni, quando effettivamente realizzate, siano state innalzate a emblemi della disumanizzazione, è un altro sintomo interessante della distanza che ci separa da un'epoca in cui, tra la corsa alla luna e i frigoriferi per tutti, il futuro era un panorama radioso e ottimista.
Non è un caso che il dopoguerra sia anche stato il momento del boom della futurologia, con libri e disegni che immaginavano macchine volanti, case automatizzate, villaggi vacanza su Marte e  viaggi spaziali fatti per portare il consumismo o il comunismo su pianeti lontani. Eppure, in contemporanea, ci sono stati anche Ballard e Dick, Kubrick e Tarkovskij. E con loro l'idea che il futuro possa sempre andare a finire molto male e che il viaggio senza fine sia quello nello spazio interno, pieno di allucinazioni e frammenti di identità mutanti.
E la prima volta che ho visto una fotografia della torre di Ještěd la sensazione è stata proprio quella di trovarsi di fronte a un oggetto alieno, non di questo mondo, un monolite piantato nella neve e puntato verso il cosmo.

giovedì 4 agosto 2011

RETROMANIA. NATO IL BLOG UFFICIALE!



ISBN edizioni ha appena lanciato il blog Retromania, dedicato al nuovo libro di Simon Reynolds, che verrà pubblicato in Italia il 15 settembre. Il blog sarà una buona occasione per ripercorrere gli universi musicali raccontati dal critico inglese nei suoi altri libri (il Post-Punk, le contaminazioni tra suoni bianchi e suoni neri raccontate in Hip-Hop rock, l'elettronica, il continuum hardcore che attraversa come una corrente sotterranea la musica inglese degli ultimi quindici anni) e per seguire alcune delle molte traiettorie tracciate in Retromania. Non solo Reynolds, però, dato che il blog vorrebbe anche proporsi come spazio di raccolta e accumulo di materiali e contributi sulla cultura musicale dagli anni settanta in avanti (ogni tanto anche il signor Hulot contribuirà...). Una specie di mega-archivio di video, recensioni, interviste, monografie, contributi, link. Una mappa per (dis)orientarsi nella musica di oggi e di ieri. E forse di domani.

giovedì 28 luglio 2011

JAMES MURPHY: IL MUSICISTA COME FAN ASSOLUTO

Ritornando al tema della maniera e dello stile (e prendendo spunto ancora da Retromania) possiamo probabilmente considerare LCD Soundsystem il perfetto simbolo di questo movimento che nel post precedente ho provato a chiamare manierista. Nei suoi dischi come LCD Soundsystem, James Murphy, da ipermanierista musicalmente coltissimo, ha attraversato con l'orecchio sicuro del conoscitore decenni di elettronica e musica da ballo, recuperando suoni tipici del post punk o della disco mutante di New York, invitando sulla pista  i Kraftwek assieme agli Stooges e imitando perfino la parlata sporca da bassifondi di Manchester di Mark E. Smith dei Fall. Il name dropping di Losing my edge è un piccolo manifesto del rapporto di attaccamento del fan al passato e un emblema malinconico del musicista del XXI secolo che è prima di tutto qualcuno che ha ascoltato tanta musica e solo dopo, e proprio in quanto fan, trova la propria modalità espressiva. Il buon James Murphy ha creato con questa canzone una sorta di lamento dell'appassionato compulsivo di musica di nicchia (lui c'era "al primo concerto dei Can del 1968") di fronte all'arrivo dei ragazzini di internet che sono "in grado di dirgli ogni membro di ogni gruppo dal 1962 al 1978" e deve poi respingere gli assalti dei ragazzi delle art school di brooklyn con la loro "nostalgia presa a prestito per anni ottanta non celebrati". Losing My Edge è un panegirico ironico sul fan della vecchia guardia che era presente "alle prime prove dei Suicide in un loft di New York" e che è stato "il primo a suonare i Daft Punk ai rock kids", e ora sta perdendo il vantaggio sulle nuove leve, che sono in grado di attivare i loro momenti di retromania cliccando e scaricando in pochi minuti qualsiasi cosa. E poi ancora, in una vertiginosa rassegna dei momenti fondamentali di ogni buon fissato della musica cool, lui c'era, ai soundclashes giamaicani, al Paradise Garage con Larry Levan alla consolle e si è svegliato nudo a Ibiza nel 1988. E alla fine, parte l'elenco dei suoi dischi: dai Pere Ubu ai Fania All-Stars, dai This Heat a Scott Walker, dai Joy Division ai Royal Trux, da Juan Atkins alle Slits. Una galleria di tutta la musica che un tempo era fondamentale cercare e sentire (e un certa fatica da viaggio iniziatico era parte integrante di questa ricerca) e che ora chiunque può recuperare e magari subito cestinare con un click. James Murphy è il fan assoluto che viaggia in tutte le epoche storiche, esalta e ridicolizza la passione per gli oggetti musicali del passato, creando una sorta di antimanifesto, ironico ma affettuoso di una condizione di fandom (l'essere fan) che ora non può più esistere.

venerdì 22 luglio 2011

MANIERA

Una parola per il passaggio dal momento al monumento, vale a dire dal senso di essere qui, ora, in un determinato momento (la urgency of now degli Smashing Pumpkins), alla museificazione del pop e del rock (e gli stessi Smashing Pumpkins erano degli ottimi retro-attivatori in ottica grunge dei riff dei Black Sabbath): questa parola può essere "manierismo", proprio come i pittori del '500 dipingevano alla maniera dei pittori del Rinascimento. Per capirci, manieristi sono i Franz Ferdinand con il loro punk funk da giovane Scozia rivisto e reso assoluto per l'orecchio contemporaneo (i manieristi a volte dipingevano "meglio" dei maestri a cui si ispiravano). In modo diverso, di maniera sono gli anni ottanta e il rock radiofonico di Ariel Pink. I suoi dischi sono mondi sonori in cui Hall & Oates stanno accanto ai Fleetwood Mac, il soft rock trapassa in melodie idiote e zuccherose da teen movie, dando vita a un incrocio pop mai avvenuto, tra ritornelli orecchiabili, classic rock, momenti vagamente soul, il tutto filtrato da rumori di fondo e disturbi, con il celebre effetto da "radio mal sintonizzata" che di solito si associa alle sue canzoni. In pratica, è come essere in un episodio di Love Boat pieno di droga e spettri. Ariel Pink evoca questa sfasatura sonora richiamando una certa caratteristica del passato in termini di timbri, strumenti, suoni che agiscono come marcatori temporali. Siamo in una canzone degli anni settanta-ottanta, eppure anche nel presente, con un effetto di slittamento di strati cronologici che scivolano l'uno sull'altro. Ariel Pink dà vita a una neopsichedelia nebulosa e fantasmatica (il suo gruppo non a caso si chiama Haunted Graffiti), creata usando riferimenti a suoni in origine non psichedelici, e a volte anzi caratterizzati da produzioni scintillanti e molto pulite (come i Fleetwood Mac o i Blue Oyster Cult e in genere il soft rock da radio). Il fatto che Ariel Pink sia considerato uno dei musicisti più rappresentativi degli anni zero (Reynolds addirittura fa del suo Doldrums il primo disco nella sua personale classifica dei migliori del decennio) e che il recente Before Today sia stato celebrato come uno dei dischi del 2010, è molto sintomatico di questa preminenza del Manierismo.

lunedì 18 luglio 2011

ZACH GALIFIANAKIS E L'ETERNO RITORNO

Un'idea di destino, molto post tutto. Una notte da leoni 2, dopo averlo visto al cinema leggero senso di insoddisfazione: il film è il remake del primo, quasi identico, persino canzone di Danzig all'inizio, telefonata che innesca tutto. Una sorta di autoremake, di copia dell'originale. Poi leggo su Inrocks una recensione (leggere recensioni dopo aver già visto...) con una considerazione interessante. Sembra quasi un film sul destino, sull'essere condannati a ripetere quello che è già successo, l'impossibilità di liberarsi del destino o della necessità.
All'inizio del film si scopre che Zach Galifianakis non si è mai rimesso dall'avventura del primo film. Vive chiuso nella sua cameretta, le pareti tappezzate di foto scattate la prima volta. Per lui il viaggio a Las Vegas non è mai terminato, non è mai uscito dal trip.

Altra cosa interessante: i due film si chiudono con le foto fatte durante le notti di cui i protagonisti non hanno alcun ricordo. Noi non vediamo mai quello che è successo davvero se non attraverso quelle immagini, sono l'unico accesso all'evento, alla realtà dei fatti, ma è un eccesso deviato e indiretto, perché i protagonisti non hanno mai vissuto davvero (se vivere è anche avere un ricordo) quelle situazioni. Galifianakis, che tiene ossessivamente le foto di qualcosa che non ricorda di aver vissuto, mi sembra qualcosa che si lega a tutti questi discorsi sul passato, sulla retromania.

venerdì 15 luglio 2011

DA ELVIS A MARCEL


Questi attaccamenti vagamente ossessivi sono comunque momenti di innamoramento, passioni che riattivano istanti del passato. A volte si crea quello che si è amato in un momento trascorso della propria vita e si vorrebbe vedere, sentire, leggere o ascoltare ancora una volta. La fissazione sull'oggetto perduto è tipica dell'elaborazione del lutto e della maliconia. Ritorna ancora Agamben, qui, quello di Stanze, quando parla della relazione con un oggetto perduto o con quello che non è mai stato presente. La registrazione del suono, questo gioco con i fantasmi che permette di ripetere all'infinito un momento originario che era però già un artefatto, una combinazione di tempi diversi (le tecniche di registrazione, quelle di produzione) genera un'elaborazione malinconica dell'esperienza del tempo che passa. Ed è forse un gioco edipico: la versione più classica della storia della prima registrazione di Elvis dice che il disco sarebbe dovuto essere un regalo per la madre. Molto Proust, in tutto questo, si potrebbe dire. Chi più "retromaniaco" di lui?

image © Tullio Pericoli, Marcel Proust, 1987