giovedì 28 luglio 2011

JAMES MURPHY: IL MUSICISTA COME FAN ASSOLUTO

Ritornando al tema della maniera e dello stile (e prendendo spunto ancora da Retromania) possiamo probabilmente considerare LCD Soundsystem il perfetto simbolo di questo movimento che nel post precedente ho provato a chiamare manierista. Nei suoi dischi come LCD Soundsystem, James Murphy, da ipermanierista musicalmente coltissimo, ha attraversato con l'orecchio sicuro del conoscitore decenni di elettronica e musica da ballo, recuperando suoni tipici del post punk o della disco mutante di New York, invitando sulla pista  i Kraftwek assieme agli Stooges e imitando perfino la parlata sporca da bassifondi di Manchester di Mark E. Smith dei Fall. Il name dropping di Losing my edge è un piccolo manifesto del rapporto di attaccamento del fan al passato e un emblema malinconico del musicista del XXI secolo che è prima di tutto qualcuno che ha ascoltato tanta musica e solo dopo, e proprio in quanto fan, trova la propria modalità espressiva. Il buon James Murphy ha creato con questa canzone una sorta di lamento dell'appassionato compulsivo di musica di nicchia (lui c'era "al primo concerto dei Can del 1968") di fronte all'arrivo dei ragazzini di internet che sono "in grado di dirgli ogni membro di ogni gruppo dal 1962 al 1978" e deve poi respingere gli assalti dei ragazzi delle art school di brooklyn con la loro "nostalgia presa a prestito per anni ottanta non celebrati". Losing My Edge è un panegirico ironico sul fan della vecchia guardia che era presente "alle prime prove dei Suicide in un loft di New York" e che è stato "il primo a suonare i Daft Punk ai rock kids", e ora sta perdendo il vantaggio sulle nuove leve, che sono in grado di attivare i loro momenti di retromania cliccando e scaricando in pochi minuti qualsiasi cosa. E poi ancora, in una vertiginosa rassegna dei momenti fondamentali di ogni buon fissato della musica cool, lui c'era, ai soundclashes giamaicani, al Paradise Garage con Larry Levan alla consolle e si è svegliato nudo a Ibiza nel 1988. E alla fine, parte l'elenco dei suoi dischi: dai Pere Ubu ai Fania All-Stars, dai This Heat a Scott Walker, dai Joy Division ai Royal Trux, da Juan Atkins alle Slits. Una galleria di tutta la musica che un tempo era fondamentale cercare e sentire (e un certa fatica da viaggio iniziatico era parte integrante di questa ricerca) e che ora chiunque può recuperare e magari subito cestinare con un click. James Murphy è il fan assoluto che viaggia in tutte le epoche storiche, esalta e ridicolizza la passione per gli oggetti musicali del passato, creando una sorta di antimanifesto, ironico ma affettuoso di una condizione di fandom (l'essere fan) che ora non può più esistere.

venerdì 22 luglio 2011

MANIERA

Una parola per il passaggio dal momento al monumento, vale a dire dal senso di essere qui, ora, in un determinato momento (la urgency of now degli Smashing Pumpkins), alla museificazione del pop e del rock (e gli stessi Smashing Pumpkins erano degli ottimi retro-attivatori in ottica grunge dei riff dei Black Sabbath): questa parola può essere "manierismo", proprio come i pittori del '500 dipingevano alla maniera dei pittori del Rinascimento. Per capirci, manieristi sono i Franz Ferdinand con il loro punk funk da giovane Scozia rivisto e reso assoluto per l'orecchio contemporaneo (i manieristi a volte dipingevano "meglio" dei maestri a cui si ispiravano). In modo diverso, di maniera sono gli anni ottanta e il rock radiofonico di Ariel Pink. I suoi dischi sono mondi sonori in cui Hall & Oates stanno accanto ai Fleetwood Mac, il soft rock trapassa in melodie idiote e zuccherose da teen movie, dando vita a un incrocio pop mai avvenuto, tra ritornelli orecchiabili, classic rock, momenti vagamente soul, il tutto filtrato da rumori di fondo e disturbi, con il celebre effetto da "radio mal sintonizzata" che di solito si associa alle sue canzoni. In pratica, è come essere in un episodio di Love Boat pieno di droga e spettri. Ariel Pink evoca questa sfasatura sonora richiamando una certa caratteristica del passato in termini di timbri, strumenti, suoni che agiscono come marcatori temporali. Siamo in una canzone degli anni settanta-ottanta, eppure anche nel presente, con un effetto di slittamento di strati cronologici che scivolano l'uno sull'altro. Ariel Pink dà vita a una neopsichedelia nebulosa e fantasmatica (il suo gruppo non a caso si chiama Haunted Graffiti), creata usando riferimenti a suoni in origine non psichedelici, e a volte anzi caratterizzati da produzioni scintillanti e molto pulite (come i Fleetwood Mac o i Blue Oyster Cult e in genere il soft rock da radio). Il fatto che Ariel Pink sia considerato uno dei musicisti più rappresentativi degli anni zero (Reynolds addirittura fa del suo Doldrums il primo disco nella sua personale classifica dei migliori del decennio) e che il recente Before Today sia stato celebrato come uno dei dischi del 2010, è molto sintomatico di questa preminenza del Manierismo.

lunedì 18 luglio 2011

ZACH GALIFIANAKIS E L'ETERNO RITORNO

Un'idea di destino, molto post tutto. Una notte da leoni 2, dopo averlo visto al cinema leggero senso di insoddisfazione: il film è il remake del primo, quasi identico, persino canzone di Danzig all'inizio, telefonata che innesca tutto. Una sorta di autoremake, di copia dell'originale. Poi leggo su Inrocks una recensione (leggere recensioni dopo aver già visto...) con una considerazione interessante. Sembra quasi un film sul destino, sull'essere condannati a ripetere quello che è già successo, l'impossibilità di liberarsi del destino o della necessità.
All'inizio del film si scopre che Zach Galifianakis non si è mai rimesso dall'avventura del primo film. Vive chiuso nella sua cameretta, le pareti tappezzate di foto scattate la prima volta. Per lui il viaggio a Las Vegas non è mai terminato, non è mai uscito dal trip.

Altra cosa interessante: i due film si chiudono con le foto fatte durante le notti di cui i protagonisti non hanno alcun ricordo. Noi non vediamo mai quello che è successo davvero se non attraverso quelle immagini, sono l'unico accesso all'evento, alla realtà dei fatti, ma è un eccesso deviato e indiretto, perché i protagonisti non hanno mai vissuto davvero (se vivere è anche avere un ricordo) quelle situazioni. Galifianakis, che tiene ossessivamente le foto di qualcosa che non ricorda di aver vissuto, mi sembra qualcosa che si lega a tutti questi discorsi sul passato, sulla retromania.

venerdì 15 luglio 2011

DA ELVIS A MARCEL


Questi attaccamenti vagamente ossessivi sono comunque momenti di innamoramento, passioni che riattivano istanti del passato. A volte si crea quello che si è amato in un momento trascorso della propria vita e si vorrebbe vedere, sentire, leggere o ascoltare ancora una volta. La fissazione sull'oggetto perduto è tipica dell'elaborazione del lutto e della maliconia. Ritorna ancora Agamben, qui, quello di Stanze, quando parla della relazione con un oggetto perduto o con quello che non è mai stato presente. La registrazione del suono, questo gioco con i fantasmi che permette di ripetere all'infinito un momento originario che era però già un artefatto, una combinazione di tempi diversi (le tecniche di registrazione, quelle di produzione) genera un'elaborazione malinconica dell'esperienza del tempo che passa. Ed è forse un gioco edipico: la versione più classica della storia della prima registrazione di Elvis dice che il disco sarebbe dovuto essere un regalo per la madre. Molto Proust, in tutto questo, si potrebbe dire. Chi più "retromaniaco" di lui?

image © Tullio Pericoli, Marcel Proust, 1987

lunedì 11 luglio 2011

FISSAZIONI

Emerge allora la fissazione su un'epoca, la tendenza a ripetere, in modo - ancora una volta quasi ossessivo - i tic e i gesti stilistici che hanno definito un certo periodo. Questo rimanere attaccati a un momento preciso del passato si lega a però a un elemento particolare. Dice bene Reynolds, a rendere possibile tutto questo è stata la possibilità di registrare il suono. Senza registrazione, senza tener traccia di un suono o di un'esperienza, nessuna possibilità di attivare questa forma di attaccamento di carattere feticistico. Però la registrazione è stata anche parte integrante del pop musicale in quanto tale (proviamo con la definizione, evidentemente insufficiente di "il pop nel senso tradizionale del termine"). Sono stati i dischi a permettere di fissare e dare una sorta di permanenza nel tempo a musicisti e artisti nel boom degli anni cinquanta e sessanta. Pensiamo ad esempio al momento fondativo del rock'n' roll: Elvis che nel 1953 entra nei Sun Studios per registrare un acetato di My Happiness. La possibilità di registrare ha permesso di creare un mercato della musica pop e ha contribuito così a rendere stabili alcune caratteristiche e alcuni segnali di stile. Ma proprio la registrazione, con il suo effetto di archiviazione continua, ora permette al pop di staccarsi dal proprio tempo, offrendo a chiunque voglia aprirli, innumerevoli cassetti, ciascuno con uno specifico sapore del tempo, da gustare o su cui fissarsi, cercando di riportarlo in vita. Come aprire vecchi bauli con vecchi odori, sacchetti di fiori secchi che hanno ancora un leggero profumo capace di rievocare quello che è accaduto nell'epoca in cui sono stati prodotti.

giovedì 7 luglio 2011

L'ORA DEL POP


Reynolds parla della nowness del pop, il rapporto tra cultura pop e tempo presente. Si potrebbe tradurre con attualità, con "orità" o "adessità". In poche parole, a lungo il pop è stato inseparabile dalla sua capacità di mettersi in relazione con la propria epoca e di contribuire a definirla. Difficile pensare a un racconto sugli anni sessanta o sui movimenti di protesta in america o sull'edonismo degli anni ottanta senza pensare ai Beatles, a Bob Dylan o, poniamo, ai Duran Duran. Ora, lo strano effetto è quello di una cultura pop che sembra fluttuare attraverso il tempo, senza connettersi in modo diretto al senso dell'"Adesso". La nowness del pop, intesa come sua qualità primaria, corre attraverso un tunnel temporale. Essere pop, oggi, vuol dire riprendere il carattere iconico di Madonna (Lady Gaga), suonare come nella New York della fine degli anni settanta (Strokes), riattivare il garage blues (White Stripes), rispolverare il pop di coppia degli anni sessanta (le innumerevoli configurazioni del tipo duo lei-lui, da She & Him a Cat's Eyes). Persino riprendere il testimone di Crosby Stills Nash &Young e della West Coast (Fleet Foxes) o di oscure esplorazioni della tradizione folk (Devendra Banhart o Joanna Newsom). Non si tratta di semplici pastiche da parte di artisti che saltano da un genere all'altro in una sorta di deriva postmoderna che corre attraverso una miriade di temporalità musicali. Abbiamo davanti agli occhi delle fissazioni su determinate epoche passate del pop, piccole nevrosi in forma di canzone. Retromania è in fondo un viaggio in questa strana temporalità a due strati: sempre uno strato passato che appare sotto l'attuale, producendo una percezione sfalsata, leggermente spaesante. Da qui l'idea che mi rimane con più forza, leggendo il libro: che ci sia una sorta di storia sotterranea del pop, fatta di affioramenti e cancellazioni, diversa da quella – più rettilinea – che siamo abituati a sentirci raccontare.

image © Viktor Timofeev

lunedì 4 luglio 2011

FUORI POSTO

Questo nasce dal non sentirsi a casa nel presente e quindi da una nostalgia per il passato. Reynolds racconta come l'idea di nostalgia avesse all'inizio una connotazione spaziale (questa particolare tonalità emotiva viene codificata nel XVII secolo dal medico svizzero Johannes Hofer per descrivere la malinconia dei soldati lontani da casa). Poi, poco per volta, viene in primo piano la connotazione temporale. Nostalgia come rimpianto per il tempo andato, per qualcosa di perduto. O per qualcosa che non è mai esistito. Ma in ogni caso, a connotare il tutto è un senso di estraneità dal presente, il sentirsi fuori posto, fuori luogo, nel qui e ora.
Mi vengono in mente a questo proposito le riflessioni di Agamben sulla distruzione dell'esperienza, contenute in Infanzia e Storia.