domenica 14 ottobre 2012

Hauntology, unire i punti



Tra i miei non molti meriti di esploratore di paesaggi culturali c'è quello - piccolo ma divertente da ricordare -  di essere stato probabilmente uno i primi a parlare di Hauntology in Italia. Dopo aver letto in un'intervista a Simon Reynolds (su Blow Up del maggio '08) un rapido accenno alla cosa, ho iniziato a interessarmene. Approfondendo il tema della hauntology sia dal punto di vista musicale che da quello culturale e concettuale, ho provato a elaborare qualche riflessione, partendo soprattutto dalla forte risonanza personale con certi temi. Nel 2008, con una serie di post sulla Covata Malefica (con l'alias Alunno Proserpio), ho provato a dare una definizione del termine, rintracciando alcuni fili sotterranei che permettessero di capire qualcosa della faccenda. Si trattava di un modo per chiarire soprattutto le cose a me stesso.
Ho pubblicato una versione ampliata di questi testi sul mensile Persone & Conoscenze tra il 2009 e il 2010, in una decina di puntate. Nel tempo ho poi continuato a esplorare il vasto e sfuggente territorio hauntologico, scrivendo un piccolo dizionario del cacciatore dei fantasmi e seguendo, in modo episodico, le declinazioni hauntologiche presenti anche in altre zone culturali (ad esempio in ambito americano, con il cosiddetto hypnagogic pop).

Non so se si possa dire che la hauntology sia diventata poi un trend pienamente riconoscibile. In Inghilterra si è continuato a produrre musica e altri artefatti culturali direttamente collegati all'ispirazione hauntologica. Alla Hauntology sono stati dedicati eventi e convegni, oltre che un grande numero di post (e alcuni siti). Ma in un senso o nell'altro, ogni volta che mi capita di leggere qualcosa ho l'impressione che di Hauntology si continui a parlare soprattutto in modo indiretto, deviato, attraverso l'attivazione di ondate discorsive e percettive che generano alterazioni concettuali difficili da circoscrivere.

C'è chi affronta la cosa dal punto di vista filosofico, chi opera attente e puntuali ricognizioni musicali (si vedano gli articoli di Massimo Balducci usciti su Blow Up nel 2010 sotto il titolo "Piccola Hauntologia Scolastica"), chi si lascia trasportare dalla suggestione generata da immagini, prodotti, film connessi a un determinato momento culturale. In attesa che Mark Fisher (alias K Punk, uno dei primi in assoluto a parlarne sul suo sito) pubblichi quello che potrebbe essere il primo contributo organico al dibattito, il da tempo annunciato Ghosts of my Life (un libro fantasma?).
Possibili punti di emergenza di questo strano continente sotterraneo si possono rintracciare nella miriade di siti dedicati al recupero di frammenti di estetica modernista o di suoni-parole-visioni collegate a un'idea di progresso dell'essere umano raggiungibile attraverso la creazione di percorsi educativi, scolastici e sociali capaci di coniugare il rigore del design e l'espressione della libertà individuale (date un'occhiata ad esempio a quello che c'è in toysandtechinques). Oppure si può pensare a quello strano continuum temporale in cui l'architettura brutalista (come quella di Thamesmead, che si vede nella famosa scena in cui Alex picchia i suoi amici drughi in Arancia Meccanica) o le stilizzazioni della grafica anni sessanta e settanta entrano in diretta collisione con immaginari fantascientifici, paranoie ufologiche e revival pagani (ne è un buon esempio foundobjects).


Per dirla in una sola frase, tutto ciò che hanno in comune queste differenti linee di sviluppo è una bizzarra attrazione per una zona temporale in cui modernismo e redenzione sociale, nenie infantili e voci aliene, vetrine di shop vittoriani e utopie socialiste entrano in contatto in un momento particolare, assumendo la consistenza sfumata di fantasmi.
La hauntology è ciò che si genera quando avviene questo contatto. Così può avvenire che un concetto preso da un libro su Marx scritto da un filosofo poststrutturalista diventi una specie di punto di attrazione per appassionati di sintetizzatori analogici, cultori di antichi riti della fertilità, esploratori di spazi urbani in disuso, appassionati di horror soprannaturale e nostalgici della New Jerusalem del dopoguerra. Nella dispersione delle chiavi di lettura, la hauntology continua a sottrarsi a una definizione univoca, eppure la traccia dei suoi passaggi rimane molto evidente, come un elemento di disturbo impresso sugli schermi del nostro presente. Forse è giusto così, perché in fondo sarebbe difficile parlare dei fantasmi come se si parlasse di una cosa qualsiasi.

Ho comunque deciso di riprendere la questione, pubblicando alcuni testi che ho continuato a scrivere in questi anni, nella convinzione che attraverso l'idea di hauntology e attraverso gli artisti, i musicisti e i teorici che si rifanno ad essa sia possibile capire qualcosa del tempo in cui viviamo. A cominciare dal fatto che il tempo non è mai uno solo, ma una compresenza di linee e strati temporali che continuano a cambiare di posto, costringendoci a muoverci in modo discontinuo. Non si tratta di fare il punto, ma di provare a unire una serie di punti dispersi su piani diversi, per capire che figura ne viene fuori.
Il modo di essere del fantasma non ha a che fare con la presenza, ma con il non esserci del tutto.
[Ottobre 2012]

giovedì 27 settembre 2012

Noise e altre amenità. Intervista con Mike Connelly



Al termine della tre giorni di devastanti live dei Wolf Eyes al Codalunga, ho chiesto ha Mike Connelly (chitarrista rumoroso, sperimentatore elettronico e autentico vulcano di idee, oltre che con i Wolf Eyes, con progetti come Hair Police, Birth Refusal e Failing lights) se aveva voglia di fare un'intervista a distanza per questo blog. Qualche giro di mail ed ecco cosa il gentilissimo Mike mi ha risposto.
(ps l'intervista risale ormai a qualche mese fa e i dischi di cui parla Mike sono già usciti)



    Allora Mike, tutto bene con il passaggio italiano? Sei soddisfatto? E come sono andate le tre serate da headliner al Codalunga?

    - Si, è stato fantastico.  Per noi era una sfida fare tre serate con tre set differenti, dato che immaginavamo di trovarci a suonare più o meno allo stesso pubblico ogni sera. Sono stato contento del risultato di tutta la settimana, soprattutto dei set solisti alla Codalunga gallery.

    Quando ascolto i Wolf Eyes trovo che sia difficile dire se la vostra musica sia un buco nero sonoro connesso a uno stato d'animo del tutto depressivo e distruttivo o se sia l'alba di una nuova era di puro amore raggiunto attraverso il rumore assoluto. Una specie di tempesta cosmica fuori di testa in cui ci si può perdere e provare sensazioni postiive. È davvero una delle poche esperienze musicali che mi danno una specie di vibrazione hippie. Cosa ne pensi, devo rivolgermi a uno strizzacervelli o c'è qualcosa di vero in quello che mi capita?

    - No, penso che sia una reazione normale. Con questo tipo di musica, si possono suscitare sensazioni di tutti i tipi, anche quelli meno ovvi. Anche nel mio caso posso dire che "lo stato d'animo distruttivo" mi riempie di piacere. Anche se nella musica si può cogliere qualche elemento di tipo depressivo, penso che sia un modo per attraversare la depressione e uscirne indenne. Non credo che sia niente di strano nel provare gioia o felicità con qualcosa di oscuro e distruttivo. Io, ad esempio, ho sentito una scossa di puro e assoluto divertimento nel corso del set degli Inquisition

    Vedendo dal vivo i WE mi ha colpito una cosa che dai dischi non è facile da cogliere: la forte natura rituale delle vostre performance. È come trovarsi nell'occhio del ciclone. I confini tra la pace e la furia sfumano in una continua alternanza tra silenzio, droni cupi, ronzii da sciame, urla, riff neri e profondi, e così via. Sul palco voi tre avete una grande focalizzazione. Un controllo stupefacente delle dinamiche interne del rumore. La vostra musica è quasi matematica, in un certo senso. L'idea di un caos controllato pronto a portare la mente in luoghi strani, pieni di presenze ostili e forme fluttuanti. Fino a che punto dal vivo le cose sono pianificate e fino a che punto lasciate semplicemente che il caos si scateni?

    - Per i set in Italia l'improvvisazione era davvero ridotta al minimo. I concerti erano controllati e pianificati... ma sempre fino a un certo punto. Anche nelle nostre canzoni c'è spazio per fare quello che più ci piace. Ci sono delle strutture che seguiamo in modo più stretto ... Nel mio caso può trattarsi di una linea di chitarra o di un riff... Per Nate, i testi... quindi le cose sono davvero tenute sotto controllo. D'altro canto, l'anno scorso abbiamo fatto quasi solo concerti in cui c'erano pochissime cose pianificate e abbiamo suonato in modo molto più libero di quanto avessimo mai fatto prima. Dipende semplicemente dal setting, da qual'è la zona nella quale ci troviamo, tutto qui.

    Ascoltando gli Hair Police, si può cogliere qualcosa di inconfondibile. Sono più punkeggianti dei Wolf Eyes, una strana combinazione tra noise e free rock. Quasi come se Captain Beefheart incontrasse i Voivod in un paesaggio del Midwest. Elettronica deragliata, campane, un furioso drumming tribale, il basso che si muove sotto. È uno strano matrimonio tra gli spiriti liberi e fluidi del metal e l'urlo lontano di una specie di zombie psichedelico senza anima. È diverso suonare la chitarra con i Wolf Eyes e suonare il basso con gli Hair Police? 

    - Wow, grande descrizione! É davvero molto diverso suonare nell'una e nell'altra band. A un certo punto ho suonato con entrambe sia la chitarra che il basso. Ora suono solo la chitarra. Per me, comunque, si tratta sempre di corde. Uso le corde che mi servono per arrivare a destinazione, nel luogo verso cui sto andando. In questo periodo sono sei corde, di quelle più sottili. La differenza principale per me è che negli Hair Police seguo la parte vocale. Si tratta di una faccenda molto diversa, un approccio differente. Anche i testi, i titoli, ecc. Trevor e io di solito lavoriamo sui titoli... per il nuovo disco tutti i testi sono miei. È molto diverso creare il tuo mondo ed è l'unica delle mie band in cui questa forma di creazione la raggiungo attraverso i testi. Sono a un punto in cui mi trovo tranquillo con l'idea di scrivere dei testi e magari a un certo punto potrebbero passare anche a un altro progetto.

     Quando sarà pronto il nuovo disco degli Hair Police? Sarà diverso da Certainty of Swarms?

    - In realtà è già pronto. Sto finendo l'artwork e poi andremo a stamparlo. Uscirà per Gods of Tundra. Si intitola Mercurial Rites. È sempre diverso, ma penso che si tratti di un passaggio naturale. Siamo molto contenti del risultato. Dal punto di vista dei testi, è il mio disco preferito... e penso anche che siamo riusciti a registrare la batteria di Trevor meglio di quanto sia avvenuto nei dischi precedenti.

    Gods of Tundra è la tua tape label: bel nome, dove l'hai pescato?

    - Il nome Gods of Tundra suonava bene, semplicemente. Non faccio uscire solo cassette, ma anche parecchi LP. In questo momento stiamo mettendo assieme un LP a una facciata dei Birth Refusal, che si intitola Current Period of Extinction. Birth Refusal è il progetto che portiamo avanti assieme io e Olson. Gli LP sono pronti, rimane solo da dipingere e mettere assieme le copertine. Dovrebbe essere fuori nel giro di qualche settimana. 

    Puoi dirmi qualcosa sul tuo progetto solista Faling Lights? Non ho visto il tuo set a Vittorio Veneto, ma ho sentito dire che è molto diverso da quello che fai con i Wolf Eyes o gli Hair Police

    - Non direi che è davvero così diverso. La gente mi dice che è più tranquillo... Non lo so. Fa tutto parte del mio universo... certe volte elementi provenienti da tutte e tre le band entrano in collisione. C'è un nuovo LP di Failing Lights che sta per uscire per Dekorder. Si intitola Dawn Undefeated, sarà fuori molto presto.

    I Wolf Eyes sono noti anche per essere "I noisers che hanno fatto due dischi con la Sub Pop". Penso che i WE siano il gruppo più rumoroso ad essere diventato mainstream (indie mainstream, ovviamente). Ho anche scoperto che "The Driller" è stata usata in un episodio di The Office. Com'è stata l'esperienza con la Sub Pop? Cosa vuol dire per te essere in una delle band faro nella scena musicale estrema?

    - La Sub Pop è stata assolutamente cool con noi ed è stato splendido lavorare con loro. Penso che aver fatto due dischi con loro sia stato perfetto. Si, "The Driller" su The Office, è stato davvero divertente! Ti dirò che non me ne frega un cazzo di essere i più rumorosi. È una cosa che non ci è mai interessata... I nostri amplificatori non sono poi così grandi! Le persone ci percepiscono così e reagiscono così a causa dei suoni che produciamo. Sono molto più difficili da maneggiare dei suoni che vengono prodotti dalla maggior parte delle band che suonano a volume alto. E poi, nessuno può battere i Manowar in questo campo, e allora, fanculo, perché provarci?!

    Ultima domanda: Wolf Eyes, Hair Police e Gods of Tundra hanno in comune un'attitudine decisamente dark e orrorifica, dai nomi delle canzoni fino ad arrivare alla cover art. Intendo dire, titoli come "Lake of Roaches", "Stabbed in the Face" o "Certainty of Swarms" sarebbero perfetti per un qualche slasher perduto degli anni ottanta o per la videocassetta semi cancellata di un film gore-apocalittico. Da dove prendete l'ispirazione per i titoli delle canzoni e il concept visivo dei vostri lavori?

    Non c'è dubbio che personalmente la faccenda dello "slasher perduto anni ottanta" e della "cassetta semicancellata di un film gore-apocalittico" sia per me uno dei punti di partenza fondamentali. Il mio primo progetto solista si chiamava Zombi... e continuo ad avere Cannibal Holocaust in una versione bootleg giapponese in vhs e non ho nemmeno mai visto una versione rimasterizzata. Penso che in questo periodo l'ispirazione mi venga soprattutto da libri come Delitto e Castigo e film come Woman in the Dunes. Ma davvero, per me le cose si mescolano a tutti i livelli. Non distinguo le cose "alte" da quelle "basse". Tutto opera sullo stesso piano, nel mio caso. Sleepaway Camp=Rashomon=Sleepaway Camp

venerdì 1 giugno 2012

Three Days Of Struggle 2012 - Day Three



Dopo aver dato un po' di pace alle orecchie, decido di andare anche alla terza giornata del Three Days of Struggle. Dopo aver visto di cosa sono capaci i Wolf Eyes, sarebbe in effetti un peccato perdere l'occasione di risentirli subito. Nel capannone del Codalunga, tutto è come deve essere: lumini da cimitero, Nico Vascellari che raccoglie i soldi dell'ingresso e timbra a tutto spiano, ampia distesa di dischi, cassette, cd, riviste. Sono spariti i black metaller e il pubblico si assesta su una più classica configurazione di giubbotti sformati e barbe malfatte. Mi sento a casa, se casa fosse una specie di hangar pronto ad assorbire quantitativi spropositati di onde sonore in libertà.
Ad aprire le danze gli Hiroshima Rocks Around, duo batteria sax che si lascia andare a una troppo breve cavalcata free rock assolutamente selvaggia e cubista, con momenti di deriva psichedelica e lancinanti digressioni jazzate.


È quindi la volta della Squadra Omega. Doppia batteria, basso e chitarra (non ci sono i fiati che su disco fanno decollare la band verso lontananze astrali) con contorno di tuniche e facce pittate con colori di guerra. La banda di alchimisti messa in piedi tra l'altro da Matt Bordin dei Mojomatics promette davvero bene. Il set viene sorretto dal rombante drumming, consigliatissimo per indurre alterazioni percettive, sul quale la chitarra si apre in rasoiate che fanno pensare a una versione depurata dei Can. L'atmosfera è fieramente krauta, con battiti metronomici e cavalcate automobilistiche degne dei Neu! e la potenza del gruppo si sposa a una chiara vocazione ad evocare presenze inquietanti. È come se i compagni di Baal (se non conoscete la serie anni '70 andate subito a cercarla) si fossero dati alla musica tribale, e in un laboratorio alchemico costruito nel fianco di una montagna si stessero dedicando alla creazione di lunghe suite sonore con lo scopo di ipnotizzare le coscienze e conquistare il mondo. Sarà per i costumi di scena, ma mi sono venuti in mente i folli Magma, se dalla Francia avessero deciso di spostarsi in Italia per mettere in musica qualche horror di Antonio Martino o Aldo Lado. Tra il tunnel cosmico di Hallogallo e una vena di pesante psichedelia apocalittica degna dei Boris, la Squadra Omega si abbandona a rituali da soundtrack di film di serie B, in attesa che qualcuno li segnali a Julian Cope o a Tarantino.


Quando i Wolf Eyes hanno iniziato il loro concerto nel giorno tre del Three Days of Struggle, sapevo cosa aspettarmi, dato che li avevo visti due sere prima. Ma il tono oggi è ben diverso: meno furia rumorista, a mio parere, e maggiore calibratura delle atmosfere. L'introduzione è un lungo drone macerato nelle interferenze di una gigantesca radio fuori sintonia. L'atmosfera è sospesa e solo guardando l'orologio mi rendo conto che il tempo passa. Lo sfasamento della percezione spaziotemporale è per me il segnale che sta succedendo qualcosa di interessante.
Poi, mentre si materializzano gli ormai classici battiti da srotolamento delle budella, ci si prepara all'arrivo della furia. John Olson è al sax e ripete un motivetto gracchiante, alzando la tensione mentre Mike Connelly, che sfoggia una favolosa felpa dei Rhapsody, accompagna con la testa le schitarrate sempre più pesanti. Il suono sale, e si sgrana in una dilatazione che sta tra le catacombe black metal, gli spazi aperti del dub e le sperimentazioni free jazz più astrali, per sospendere ancora per un attimo l'assalto. E l'assalto arriva, alla fine, quando Nate Young inizia ad urlare, liberando tutte le correnti energetiche fino ad allora trattenute e canalizzandole, sotto forma di ondate di mteallo vibrante, nel corpo degli ascoltatori. Di questo ci si accorge che: il suono è vibrazione e onda oscillante, e con questo tipo di musica tutto il corpo si converte in orecchio.
Sono pure partiture astratte dipinte su schermi bianchi che vengono via via graffiati, forati, ripiegati, aggrovigliati, bruciati come vecchie pellicole che si consumano nel momento stesso in cui vengono esposte alla luce. Poi arrivano altri rallentamenti, un uso sapiente dei vuoti, che cullano le scariche free noise in un gioco di abbracci e strappi successivi. Nella nebbia acida si distingue qualcosa che potrebbe essere Stabbed in the Face: nel nero echeggia un suono ultrabasso che costringe a sbattere la testa; viene poi doppiato da una chitarra che ricapitola i riff catacombali del death metal e li consegna alle decomposizioni del rumore più feroce. Non si capisce bene se i Wolf Eyes siano dei fini avanaguardisti travestiti da rozzi metallari o viceversa.
Quando si arriva all'ultimo pezzo, il rituale cosmico prende l'aspetto di una combinazione tra battiti elettronici, stridii lancinanti, crepitii da circuito mal saldato. E la carica a testa bassa è una centrifuga di rumore puro e libero sparata addosso, un colpo di vento in faccia. Con un'apoteosi di trent'anni di suono, convocando Throbbing Gristle, Slayer,  Anthony Braxton e Black Flag, incredibilmente i Wolf Eyes potrebbero mettere d'accordo tutti, da Lester Bangs a Simon Reynolds, dagli improvvisatori con la barba ai nerd in cameretta, sul senso di continuare a suonare, nel 2012, musica del genere.

Me ne vado con le orecchie ancora doloranti e con la sensazione di aver assistito a qualcosa di memorabile... Riprendo la strada, c'è un po' di pioggia, le montagne in lontananza sono masse scure che incombono e scorrono sul parabrezza. Sono immobili e indifferenti. Sfacciatamente belle, come i suoni che hanno abitato questa strana notte.

Se vuoi leggere il rapporto dalla prima giornata del TDOS, clicca QUI

lunedì 28 maggio 2012

COSMOPOLIS: la mistica del cybercapitale


Nel 2003, quando il libro uscì in Italia, scrissi questa recensione. In questi giorni, nelle sale, c'è il film di Cronenberg, per cui ho deciso di riproporla.

La situazione è stabile. La parola stabile non significa più niente, la situazione non esiste più. Eric Packer è un miliardario, un surfista che corre su onde di instabilità. Il denso mare ondulatorio è interrotto solo dall’apparente realtà degli oggetti. Oggetti troppo concreti per avere ancora un senso nel suo mondo. Pistole, telefoni, automobili. Packer vive in un utero immateriale, scomposto, scomponibile. Numeri, parole, informazioni. Tutto può essere ridotto ad entità discrete, scomposte, scomponibili. Esistono solo le unità, depurate e fluttuanti, atomi infinitamente ricombinabili. Packer ama la fisica e la poesia. File di lettere sulla pagina bianca, alternanza ritmica di pieni e vuoti, la sua casa di quarantotto stanze ha pareti costellate di tele coperte da ampie campiture di colore. Solide, monotone, già vecchie. Packer preferisce il vecchio al nuovo, perché il vecchio ha perso ogni illusione di significare oltre se stesso. Packer sa che solo ciò che fluttua instabile ha ancora un senso. Il senso è il ritmo dei numeri che si contraggono e si espandono. Numeri che solo lui può decifrare. Packer vive tra fluttuazioni monetarie, lo Yen sale senza fermarsi. Imprevedibile, e lui lo ha previsto.

Nella sua limousine bianca, inapparente e impossibile da distinguere da tutte le altre, Packer filtra informazioni, ostinato radar umano che si contrae e si espande. Dietro il suo autista, scivolando lungo le strade di New York, Packer è l’uomo comune, senza qualità, senza caratteristiche che lo distinguano da tutto quello che lo circonda. È solo una pioggia di unità infinitesime che giocano a disporsi in costellazioni provvisorie. Packer accoglie tutti nella sua limousine bianca, è il suo ufficio. La parola ufficio non significa più nulla, ha perso ogni saturazione. Non è più il tempo del digitale, del tattile, del palmare. Il futuro è il tempo della voce, dei colori in espansione. Packer ha in casa tele di Rothko, non le migliori. Macchie in espansione. Niente figure, niente spessori: solo superfici piatte che respirano, polmoni a saturazione cromatica. “Ogni attacco ai confini della percezione sembra imprudente, all’inizio”. Scommettere sulle fluttuazioni del mercato valutario è un attacco ai confini della percezione.  Il mercato respira nell’atmosfera satura  e densa creata dall’incontro tra tecnologia e capitale.

Il mercato fluttua in piogge di numeri che si dispongono in diagrammi. Formano figure organiche, riscrivono il codice della vita, simulano creazioni e distruzioni di mondi. Conchiglie, frattali, ali d’uccello, ossa cave che spingono verso l’alto. Anche Packer vuole salire, farsi risucchiare verso l’alto dalle ossa cave del mercato, come un uccello mitologico. Nella limousine bianca, mentre sugli schermi al plasma scorrono indici e flussi numerici, Packer parla con il suo analista valutario, con la guardia del corpo, con la moglie, con il medico. Le intrusioni della realtà alterano appena l’equilibrio della sua sfera di attenzione. Mentre New York scorre, appena percepibile, accanto alla limousine, Packer si interroga sui rari segni che sembrano staccarsi con più forza dalla superficie delle cose reclamando un supplemento di attenzione. I modelli standard non consentono più di leggere la complessità crescente del mercato: solo le eccezioni sono degne di nota. Le asimmetrie alterano lo sfondo compatto della città per offrire la chiave di accesso alle leggi della biosfera finanziaria: un silenzio da interpretare, un’irregolarità alla prostata, una diminuzione dei consumi, l’oscura minaccia di un attentato, il funerale del rapper sufi Brutha Fez. Il traffico si infittisce, si blocca, ebrei cassidici ripetono contrattazioni millenarie, forme obsolete di circolazione del denaro, ancora troppo concrete, che non significano più nulla per il futuro. Packer cerca l’immateriale, l’unità intangibile, la legge dello scambio e dei rapporti tra le persone. L’unico modo per arrivare alla legge generale è restare aggrappato ai particolari: piccole incrinature che affiorano e scompongono la superficie omogenea del futuro.

Per un giorno intero Eric Packer viaggia attraverso questi flussi di eventi depurati, li traduce in cifre e in curve di prevedibilità, confronta sistemi infinitamente distanti, rintraccia regolarità e scommette sull’instabilità caotica e sempre identica dei desideri umani. Il suo sogno è la cancellazione di sé. Vuole fondersi con diagrammi e onde finanziarie, per ricongiungersi alla figura originaria che regola la nascita delle forme organiche e la struttura catastrofica dei mercati. Il cybercapitale produce il tempo, crea il futuro, spinge il presente oltre se stesso polverizzandolo in unità di misura inconcepibili dalla mente umana.  Packer cerca di sintonizzare il battito cardiaco su questo tempo ondulatorio, vuole afferrane le leggi, è disposto a pagarne il prezzo: l’esaurimento del proprio tempo fisico, la realizzazione della minaccia. La vita contratta in un punto, bruciata in un giorno radioso al sole dei mercati finanziari. In Cosmopolis Don DeLillo, dopo aver braccato da vicino la complessità esplosa del reale (Rumore Bianco, Underworld), segue la via opposta: restringere il quadro, levigare la pagina, scrivere sotto vuoto, condensare il mondo per farlo entrare in una limousine bianca che corre tra le torri di vetro di New York, città cosmo.


mercoledì 23 maggio 2012

Three Days Of Struggle 2012 - Day One



Nel progressivo assottigliarsi dei confini tra ciò che è mainstream e ciò che rimane ai margini, nella proliferazione di micronicchie che forniscono a ciascuno il suo, il concetto di festival perde sempre più di senso. Intendo dire: è ancora possibile andare a un evento musicale con il gusto di lasciarsi sorprendere, di ricevere sensazioni che non siano già tutte raccolte nel dosaggio consapevole e studiato degli ingredienti? Le giornate di lotta di Vittorio Veneto danno in questo senso ancora un po' di speranza perché, fondamentalmente, durante questa rassegna può succedere qualsiasi cosa. Giunto alla quinta edizione, il Three Days of Struggle ha radunato negli anni la crème della musica inclassificabile, chiamando personaggi del calibro di Ghedalia Tazartès, Burial Hex, Sissy Spacek, Giuseppe Ielasi, Renato Rinaldi, Charlemagne Palestine, solo per ricordare qualche nome. Quest'anno, edizione in grande spolvero, con l'incredibile decisione di avere come headliner i Wolf Eyes per tutte e tre le serate. Il che vuol dire che nella geografia della musica "out there" Vittorio Veneto è il posto in cui vale la pena essere.

Parto la prima sera per raggiungere la ridente cittadina alle pendici delle Dolomiti, sapendo che senza dubbio mi perderò. E così difatti accade, con memorabili giri in tondo per la zona industriale, tra spettrali capannoni e vie che richiamano le vittime dei lager, i morti sul lavoro, i martiri di qua, i martiri di là. Ci mancano solo i sepolti vivi e l'atmosfera è compiuta. Lo spazio del Codalunga è segnalato da una fila di lumini cimiteriali e la presenza abbondante di black metallers dalla lunga criniera corvina e il volto truce fanno pensare che i colombiani Inquisition abbiano richiamato nere folle adoranti da buona parte del trevigiano e del bellunese. Ma andiamo con ordine. Aprono gli Opium Child, duo elettronico che gravita attorno alla rivista supercool di arte e amenità Neromagazine. Elettronica con buona dose di ronzii cosmici, bassi rombanti che arrivano a far decollare la coscienza, disturbi di vario genere. Direi che sono una versione sfrontata e italica degli Emeralds, che riescono a tener alto il gonfalone dei synth analogici e della via mediterranea ai suoni ipnagogici. Sale poi sul palco Lorenzo Senni, con ciuffo sugli occhi, scatenando piogge di beat ripetitivi e metallici che mi fanno pensare a un matrimonio contronatura tra l'elettronica da ballare e la cold wave anni ottanta. Immersi in alienanti pulsazioni da film apocalittico e con la tentazione di battere il proverbiale piedino, si notano le prime facce perplesse dei fan degli Inquisition che sembran dire "ma che ci faccio qui?"

Vengono poi, appunto, gli dei del caos colombiani. Sono in due, con face-painting di prammatica. Black Metal duro e puro, crudissimo, con un lavoro spaventoso del batterista e la voce da ranocchio malvagio del cantante che troneggia sulla melma. Il suono è decisamente pessimo, ma questo rende ancora più interessante il tutto perché, depurato dalle sue tentazioni sinfoniche e amputato delle melodie infette, il Black Metal si riconnette alla propria origine. Dai primissimi Mayhem si risale al Bathory punkeggiante del primo album, si ritrovano i Motorhead e, sotto le facce imbiancate, si odono i gloriosi rombi hardcore. Buono sfoggio di corna e invocazioni a Satana; i fan pogano con moderazione e (perfezionisti come tutti i metallari) si lamentano per il suono, ma il capannone del Codalunga è caldo al punto giusto. Al punto giusto per cosa?
Ovviamente per gli headliner della serata (serata mica tanto, visto che siamo già quasi alle due di mattina ...).


Dopo gli Inquisition arrivano infatti i Wolf Eyes e, al di là delle preferenze per un genere o per l'altro, si ha la sensazione di vedere all'opera dei maestri indiscutibili. I tre del Michigan sono noti per alcune cose. Hanno fatto uscire un paio di dischi per la Sub Pop, hanno suonato con il jazzista di avanguardia Anthony Braxton, sono uno dei gruppi noise più famosi al mondo. Il che, tradotto, vuol dire che ci sono a sentirli non più di trenta o quaranta persone...

I Wolf Eyes sono in tre: John Olson è grosso e con pochi capelli, ha un giubbottino di jeans corto e faccia da ragazzone americano, al punto che si teme abbia disertato dalla base di Aviano per venire a far caciara da queste parti. Mike Connelly è scuro, sorridente, con l'aria un po' adrenalinica di certi personaggi alla Tarantino. Nate Young è uno spilungone barbuto e silenzioso, come si addice al tipico frontman carismatico. Sono stati seduti buoni buoni al banchetto del merchandise, si sono ogni tanto alzati per andare a sentire gli altri musicisti. Ora tocca a loro.

Attaccano. I ricordi son confusi, ma John Olson martella una specie di lungo bastone attrezzato a mò di basso moto-zappa, mentre con una mano armeggia su macchine che lanciano battiti ultraprofondi in grado di smuovere gli organi interni. Il tutto tra lancinanti sfrigolature elettriche, come se una gigantesca bistecca fosse messa su un barbecue e il tutto fosse amplificato. Con la variabile vagamente burroughsiana che la bistecca è, per qualche misteriosa ragione, viva. Dall'altra parte Mike Connelly stringe tra le braccia una chitarra e, liberato da qualsiasi necessità di dare un corpo melodico al tutto, si abbandona a orge di feedback e a potentissimi fendenti metallici, andando ogni tanto a girare manopole malvage direttamente connesse ai centri per la sordità. Nate Young, invece, urla nel microfono e dalla gola gli escono suoni che, effettati e filtrati, diventano strati abrasivi che grattano via la pelle. Anche lui di tanto in tanto ficca le dita in scatole elettriche cavandone fuori variazioni sul tema "rumore bianco e fischi nelle orecchie".
Il volume è assordante, ma quello che mi colpisce è che si tratta di una musica assolutamente nitida, fatta di strati che si separano e si mescolano, per staccarsi poi di nuovo. Esiste una geometria all'opera, in questo esercizio nell'esaperazione delle forme. E i Wolf Eyes, dal vivo ancora più che su disco, si propongono come l'incarnazione definitiva di un certo tipo di suono del Michigan: gli Stooges senza melodia, con tutti i rumori prodotti dai fratelli Asheton condensati e risparati fuori dagli amplificatori. Poco più di mezz'ora di musica, credo, con  l'impressione di trovarsi di fronte a un'evocazione di tutto quello che è (ed è stata) la musica estrema. Elettronica industriale, harsh noise, assalti death metal, attitudine hardcore, sibili psichedelici, avanguardismi no wave, trip sciamanici. Risalendo alla radice tribale del rock stesso. Tutto immerso nella forza solenne di un  rituale sonoro profano. Esco piuttosto sconvolto, perché, devo dire, non mi aspettavo tale potenza e tale presenza. Dentro di me si deposita l'idea di tornare a vederli in una delle altre serate...

giovedì 19 aprile 2012

Hype Williams, nella nebbia e nel suono


Hype Williams è un celebre regista di videoclip, ma anche un duo formato da Dean Blunt e Inga Copeland. Inga Copeland si chiama anche Karen Glass, o è il contrario. Gli Hype Williams vivono tra Londra e Berlino. Fanno una musica piena di nebbia. A Udine c'era la nebbia, l'anno scorso. Non fuori, la nebbia era dentro il Cas*aupa. Una nebbiolina colorata che lasciava intravedere solo qualche lampo di luce. Stavamo stravaccati sul divano in mezzo alla nebbia viola, con la musica degli Hype Williams che entrava e usciva dalle orecchie.
Ora Hybrida ha fatto uscire la registrazione di quella serata. Musica narcotica, pigre apparizioni elettroniche, synth antiquati, sequenze di suono interrotte da sirene lontane, pezzi di voci che appaiono e scompaiono. Dub passato attraverso tutti i suoni degli ultimi trent'anni, scomposizioni e spostamenti percettivi, musica protoindustriale, hauntology e hypnagogic pop, noise morbidissimo. Throbbing Gristle e Oneohtrix Point Never stesi a dormire in una caverna di velluto con cassette di pop anni ottanta fatte girare su vecchi stereo. Preset di tastierine giocattolo che risuonano in paesaggi scuri da film di Carpenter, con Sade che canta sullo sfondo. Tessiture ambientali fatte d'acqua che scivolano in mezzo a ultrabassi dubstep, senza alcuna possibilità di identificare cosa viene prima e cosa dopo, perché la storia che raccontano gli Hype Williams è perfettamente orizzontale. Tutto nello stesso tempo. La loro nebbia ipnotica mira al rallentamento della coscienza, attraverso esperimenti fatti sul fantasma psichico del pop e dell'elettronica. La traccia registrata di quella nebbia e di quei suoni mi permette di rientrare nel ricordo della serata udinese. Il futuro è una musica già sentita, infinitamente distante, sussurrata nell'orecchio mentre dormi.


Hype Williams – 13 04 2011 Live a Udine
99 copie numerate
www.hybridaspace.org





mercoledì 7 marzo 2012

Ricordo sotto forma di lipogramma


Giorgio P. ha scritto La scomparsa, istruito a usar la vita, fatto la mappa di vari spazi (fra cui un'isola in Patagonia chiamata W), raccontando chi o cosa li abitava.
Ha raccolto i suoi ricordi, scritto la storia di un quadro, catalogato moltissimi libri sul lancio di pomodori in faccia a cantanti. Insomma, ha giocato con la scrittura, ma ogni suo gioco ha raccontato il vuoto in fondo alla vita.
Mi ricordo poi una sua foto famosa, con la barba da matto, il cardigan di lana grossa, un gatto in spalla.