venerdì 1 giugno 2012
Three Days Of Struggle 2012 - Day Three
Dopo aver dato un po' di pace alle orecchie, decido di andare anche alla terza giornata del Three Days of Struggle. Dopo aver visto di cosa sono capaci i Wolf Eyes, sarebbe in effetti un peccato perdere l'occasione di risentirli subito. Nel capannone del Codalunga, tutto è come deve essere: lumini da cimitero, Nico Vascellari che raccoglie i soldi dell'ingresso e timbra a tutto spiano, ampia distesa di dischi, cassette, cd, riviste. Sono spariti i black metaller e il pubblico si assesta su una più classica configurazione di giubbotti sformati e barbe malfatte. Mi sento a casa, se casa fosse una specie di hangar pronto ad assorbire quantitativi spropositati di onde sonore in libertà.
Ad aprire le danze gli Hiroshima Rocks Around, duo batteria sax che si lascia andare a una troppo breve cavalcata free rock assolutamente selvaggia e cubista, con momenti di deriva psichedelica e lancinanti digressioni jazzate.
È quindi la volta della Squadra Omega. Doppia batteria, basso e chitarra (non ci sono i fiati che su disco fanno decollare la band verso lontananze astrali) con contorno di tuniche e facce pittate con colori di guerra. La banda di alchimisti messa in piedi tra l'altro da Matt Bordin dei Mojomatics promette davvero bene. Il set viene sorretto dal rombante drumming, consigliatissimo per indurre alterazioni percettive, sul quale la chitarra si apre in rasoiate che fanno pensare a una versione depurata dei Can. L'atmosfera è fieramente krauta, con battiti metronomici e cavalcate automobilistiche degne dei Neu! e la potenza del gruppo si sposa a una chiara vocazione ad evocare presenze inquietanti. È come se i compagni di Baal (se non conoscete la serie anni '70 andate subito a cercarla) si fossero dati alla musica tribale, e in un laboratorio alchemico costruito nel fianco di una montagna si stessero dedicando alla creazione di lunghe suite sonore con lo scopo di ipnotizzare le coscienze e conquistare il mondo. Sarà per i costumi di scena, ma mi sono venuti in mente i folli Magma, se dalla Francia avessero deciso di spostarsi in Italia per mettere in musica qualche horror di Antonio Martino o Aldo Lado. Tra il tunnel cosmico di Hallogallo e una vena di pesante psichedelia apocalittica degna dei Boris, la Squadra Omega si abbandona a rituali da soundtrack di film di serie B, in attesa che qualcuno li segnali a Julian Cope o a Tarantino.
Quando i Wolf Eyes hanno iniziato il loro concerto nel giorno tre del Three Days of Struggle, sapevo cosa aspettarmi, dato che li avevo visti due sere prima. Ma il tono oggi è ben diverso: meno furia rumorista, a mio parere, e maggiore calibratura delle atmosfere. L'introduzione è un lungo drone macerato nelle interferenze di una gigantesca radio fuori sintonia. L'atmosfera è sospesa e solo guardando l'orologio mi rendo conto che il tempo passa. Lo sfasamento della percezione spaziotemporale è per me il segnale che sta succedendo qualcosa di interessante.
Poi, mentre si materializzano gli ormai classici battiti da srotolamento delle budella, ci si prepara all'arrivo della furia. John Olson è al sax e ripete un motivetto gracchiante, alzando la tensione mentre Mike Connelly, che sfoggia una favolosa felpa dei Rhapsody, accompagna con la testa le schitarrate sempre più pesanti. Il suono sale, e si sgrana in una dilatazione che sta tra le catacombe black metal, gli spazi aperti del dub e le sperimentazioni free jazz più astrali, per sospendere ancora per un attimo l'assalto. E l'assalto arriva, alla fine, quando Nate Young inizia ad urlare, liberando tutte le correnti energetiche fino ad allora trattenute e canalizzandole, sotto forma di ondate di mteallo vibrante, nel corpo degli ascoltatori. Di questo ci si accorge che: il suono è vibrazione e onda oscillante, e con questo tipo di musica tutto il corpo si converte in orecchio.
Sono pure partiture astratte dipinte su schermi bianchi che vengono via via graffiati, forati, ripiegati, aggrovigliati, bruciati come vecchie pellicole che si consumano nel momento stesso in cui vengono esposte alla luce. Poi arrivano altri rallentamenti, un uso sapiente dei vuoti, che cullano le scariche free noise in un gioco di abbracci e strappi successivi. Nella nebbia acida si distingue qualcosa che potrebbe essere Stabbed in the Face: nel nero echeggia un suono ultrabasso che costringe a sbattere la testa; viene poi doppiato da una chitarra che ricapitola i riff catacombali del death metal e li consegna alle decomposizioni del rumore più feroce. Non si capisce bene se i Wolf Eyes siano dei fini avanaguardisti travestiti da rozzi metallari o viceversa.
Quando si arriva all'ultimo pezzo, il rituale cosmico prende l'aspetto di una combinazione tra battiti elettronici, stridii lancinanti, crepitii da circuito mal saldato. E la carica a testa bassa è una centrifuga di rumore puro e libero sparata addosso, un colpo di vento in faccia. Con un'apoteosi di trent'anni di suono, convocando Throbbing Gristle, Slayer, Anthony Braxton e Black Flag, incredibilmente i Wolf Eyes potrebbero mettere d'accordo tutti, da Lester Bangs a Simon Reynolds, dagli improvvisatori con la barba ai nerd in cameretta, sul senso di continuare a suonare, nel 2012, musica del genere.
Me ne vado con le orecchie ancora doloranti e con la sensazione di aver assistito a qualcosa di memorabile... Riprendo la strada, c'è un po' di pioggia, le montagne in lontananza sono masse scure che incombono e scorrono sul parabrezza. Sono immobili e indifferenti. Sfacciatamente belle, come i suoni che hanno abitato questa strana notte.
Se vuoi leggere il rapporto dalla prima giornata del TDOS, clicca QUI
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