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Ještěd Tower, 1968-73 Karel Hubáček, © Jiří Jiroutek |
Perdiamo, dice Reynolds, la capacità di immaginare il futuro. Aggiungerei: c'è una difficoltà a mettere in moto i componenti del presente per immaginarli in una configurazione diversa e chiedersi cosa vorrebbe dire vivere all'interno di questa nuova configurazione. Facciamo fatica a immaginarci in situazioni diverse da quelle che già rientrano nel nostro orizzonte di possibilità attuale. E, in generale, se è vero che siamo spesso alle prese con il culto dell'attimo fuggente, ridotto a fruizione superficiale del presente, c'è in effetti poco interesse per il potenziale di cambiamento presente nell'attualità, per l'idea che qualcosa possa accadere in un certo momento e innescare il cambiamento futuro.
Reynolds, nei capitoli conclusivi del suo libro, affronta direttamente il tema del
modernismo (e dei periodici boom modernisti) e riflette proprio sulla sensazione di vivere in un presente svuotato di senso del possibile, cioè della prospettiva di vivere in un futuro non riassorbibile nelle coordinate ordinarie dell'esistenza. Pare quasi incredibile, dal punto di vista della contemporaneità, ma è esistito un tempo in cui le potenzialità di cambiamento contenute nel futuro sono sembrate praticamente illimitate. Quando, nel dopoguerra, la spinta alla radicalizzazione estetica e all'innovazione continua tipiche delle avanguardie storiche si è associata alla necessità di pensare un mondo nuovo, capace di lasciarsi alle spalle le rovine della guerra, quello che è avvenuto è stato un progressivo momento di infiltrazione delle idee moderniste nei discorsi ufficiali delle ideologie dominanti. Nomi come quello di
Le Corbusier o di
Buckminster Fuller erano i simboli della voglia di costruire città e abitazioni che fossero all'altezza di questo sogno di rifondazione radicale. Le unità di abitazione di Le Corbusier, le gigantesche e fantascienfiche cupole geodesiche di Buckminster Fuller, gli spazi architettonici comuni dell'architetttura sovietica, le vertiginose torri radiofoniche e televisive (presenti dappertutto, da Londra a Berlino alla Polonia), ma anche le sperimentazioni elettroniche di Varese e Xenakis o le ricerche di Berio o Stockhauesn erano i segni di questo sconcertante matrimonio tra progettazione e rivoluzione, tra tecnologia e spazi umani, tra vita nelle città e sogni cosmici.
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Le Corbusier, Plan Voisin per il centro di Parigi |
Uno degli edifici più incredibili mai costruiti è stata senza dubbio la spettacolare e inquietante torre per le telecomunicazioni del monte
Ještěd, nell'allora Cecoslovacchia. Progettata da
Karel Hubáček e costruita tra il 1968 e il 1973 aveva la parte superiore fatta interamente in fibre di vetro per consentire una trasmissione perfetta del segnale e spazi interni abitabili – dal sanatorio per burocrati all'hotel di lusso – che riflettevano uno stile che evoca immagini sconcertanti: un salotto lounge spaziale progettato dal bauhaus e inserito nel ponte di comando di un'astronave sovietica, che si può immaginare abitato dai fantasmi di spie e scienziati atomici. Perfetta combinazione tra ammonimento monumentale sull'onnipresenza eterea del potere e immagine di una società in cui tecnologia e comfort potevano stare insieme: un futuro mai realizzato, ben racchiuso dal design ultramodernista della torre. Che poi molte di queste costruzioni, quando effettivamente realizzate, siano state innalzate a emblemi della disumanizzazione, è un altro sintomo interessante della distanza che ci separa da un'epoca in cui, tra la corsa alla luna e i frigoriferi per tutti, il futuro era un panorama radioso e ottimista.
Non è un caso che il dopoguerra sia anche stato il momento del boom della futurologia, con libri e disegni che immaginavano macchine volanti, case automatizzate, villaggi vacanza su Marte e viaggi spaziali fatti per portare il consumismo o il comunismo su pianeti lontani. Eppure, in contemporanea, ci sono stati anche
Ballard e
Dick,
Kubrick e
Tarkovskij. E con loro l'idea che il futuro possa sempre andare a finire molto male e che il viaggio senza fine sia quello nello spazio interno, pieno di allucinazioni e frammenti di identità mutanti.
E la prima volta che ho visto una fotografia della torre di Ještěd la sensazione è stata proprio quella di trovarsi di fronte a un oggetto alieno, non di questo mondo, un monolite piantato nella neve e puntato verso il cosmo.