lunedì 26 settembre 2011

THIS IS THE (NEW) AGE OF AQUARIUS

© miguelteixeira on Flickr


In questi ultimi tempi l'effetto retromaniaco ha fatto sì che anche alcuni generi improbabili stiano riemergendo dai bauli polverosi in cui erano stati confinati. Chi l'avrebbe mai detto che anche la musica new age, quella da sottofondo kitsch delle cassette per meditare, tutta piogge di sintetizzatori analogici, suoni di onde che si infrangono sul bagnasciuga e melodie atmosferiche, sarebbe riemersa come tendenza degli anni 10 del nuovo millennio? Un'altra imbarazzante passione che alcuni di noi ora possono rivelare senza rischiare di attirarsi gli sguardi di compatimento degli amici e lo stigma dell'esclusione sociale.
C'è comunque molto di più, oltre alle voci impostate da induzione ipnotica e i cristalli da appendere al collo. Voli cosmici sulle tracce dei Tangerine Dream, percussioni etniche immerse in fumi di incenso, olii essenziali spalmati sulla schiena mentre in tv và Il Signore del Male di John Carpenter interrotto dalla pubblicità di libri sulla crescita personale. Vapori ipnagogici e modellini dello Space Shuttle. Il tempo, come dice Reynolds, ha perso la sua direzionalità, e aprendo una porta potremmo entrare nella cameretta di un nerd che sta studiando le tecniche di controllo mentale della Dharma Corporation di Lost oppure ritrovarci una libreria degli anni settanta a comprare i libri di Peter Kolosimo. Questa forma di new-new-age (come la definisce Maurizio Blatto nella sua intervista a Reynolds uscita su Rumore di questo mese) è parte di quell'ondata di "Spectral Americana" di cui il nostro Simon parla nel capitolo di Retromania "Fantasmi di futuri passati": alcuni dei musicisti della nuova era dell'Acquario rientrano nel gran calderone del pop hauntologico (o chill-wave, o glo-fi, a seconda della sfumatura che preferiamo), una forma musicale dai contorni mobili e amebiformi emersa negli ultimi due-tre anni negli Stati Uniti e caratterizzata, un po' come la britannica hauntology, dal recupero di frammenti musicali del passato offuscati e semicancellati. Una musica che attraversa certe dimensioni temporali in uno stato stuporoso da sonnambuli e che riattinge soprattutto al pop anni ottanta radiofonico, tra Hall & Oates, i Foreigner e la colonna sonora di Miami Vice. Il tutto evocato attraverso placide nebbie di disturbi radiofonici (come in Ariel Pink) o tramite la ri-creazione della condizione di chi è stato bambino negli anni ottanta. Un'estetica fatta di vecchie vhs di fantascienza, frammenti di exotica che si rifanno più a Magnum P.I. che alla lounge music anni sessanta. Elettronica analogica da kraut rock mescolata a teen movie con ragazze in bikini, come l'allucinazione di Molly Ringwald in un porno patinato o un remake psichedelico di Robocop. Tra i rappresentati della linea hypnagogica, troviamo gente come James Ferraro (già con gli Skaters), i fanatici del loop cosmici Emeralds, Toro-Y-Moy, col suo soul synth-pop pieno di venature black, i disneyani acidi Ducktails e il ronzante e spaziale Oneohtrix Point Never, con i suoi concept di astronauti nella guerra fredda. I nuovi fanatici della new age vengono da qui, mescolando kitsch e stati alterati di coscienza e creando degli anni ottanta in bassa fedeltà, oggetti di amore della psiche sognante che non sono mai esistiti. Su tutti, i Dolphins into The Future e gli Stellar Om Source, con i loro panorami di foreste da depliant di viaggio conditi con cascate di sintetizzatori e frammenti di melodie cristalline.
Allora, tiriamo fuori dal ripostiglio la nostra vasca di deprivazione sensoriale, accendiamo una decina di candele profumate e apprestiamoci a fluttuare nello spazio.

lunedì 19 settembre 2011

RETROMANIA, UN TENTATIVO DI RECENSIONE

Il 15 settembre scorso, Retromania è uscito anche in versione italiana per ISBN edizioni.
Dopo averci scritto sopra tante cose, ecco una piccola recensione.

© Haroon Mirza, Evolution of a revolution (2011) 


Retromania è un libro sul passato e il presente del pop, con una domanda sullo sfondo: cioè se un futuro per il pop sia ancora possibile. La musica pop ha fino ad ora descritto un certo rapporto con il presente e con le possibili trasformazioni affettive e psichiche di una categoria che potremmo identificare con l'adolescenza (reale e immaginaria) e con lo stato di stupore e novità che si vive quando si scopre qualcosa che parla –attraverso suoni e rumori – al nostro modo di stare al mondo. Elvis, Dylan, i Beatles, i Velvet, i Kraftwerk, il punk, il krautrock, il post-punk, la techno hanno aperto fratture nella linearità del tempo e, ogni volta – dopo di loro – le cose non sono più state le stesse: sono stati eventi che hanno impresso nuove curvature al presente. Nel momento in cui, all'apparenza, tutto è stato già detto, la storia del pop come razzo lanciato verso il futuro sembra però fermarsi e la spinta all'innovazione, la vocazione profondamente modernista del pop e del rock, potrebbero essere solo un ricordo da evocare dalle nebbie del passato.
Quella che è sembrata una grande occasione, vale a dire la possibilità di accedere in tempo reale, attraverso la rete, all'immenso archivio della musica prodotta negli scorsi decenni, sembra ora congelare il tempo del pop in una specie di eterno rimbalzo tra presente e passato. Le coordinate dell'oggi musicale sono inscritte nella rete di continui rimandi – tra citazioni, omaggi, pastiche, parodie, adorazioni, ossessioni – di epoche passate. Il musicista, sempre più consapevole della tradizione che lo ha generato, diventa un curatore, un selezionatore, un commentatore che replica, campiona e mixa pezzi di musica di un tempo trascorso. Si tratta di un atto d'amore, certo, ma un amore che può diventare cannibalico, distruggendo l'oggetto della sua passione, generando piccole paranoie e manie, portando il fan e il musicista a soffermarsi in modo quasi feticista su certi suoni, certe ere, certi ritmi, per riportarli in vita attraverso procedimenti che hanno a che fare con l'occultismo e la psicosi non meno che con la tecnologia.
Reynolds esplora questa paradossale temporalità retroattiva, la retromania che fa correre in avanti con gli occhi fissi nel retrovisore e con il rischio di andare a sbattere contro il muro della stasi e dell'immobilità (o contro lo schermo del pc, incapaci di guardare cosa succede fuori dalla finestra). Rievocando le retromanie che già hanno abitato come fantasmi il corpo del pop (dal Northern Soul alla rinascita mod, dal revival rock 'n' roll all'elettronica del dopoguerra, dal citazionismo di Stereolab e LCD Soundsystem all'elettronica fantasmatica di Boards of Canada e Broadcast, dalla fusione sampledelica di DJ Shadow alla furia arty dei Sonic Youth), Reynolds porta il lettore in un lungo viaggio su e giù per lo spazio-tempo, guidato dalla passione del fan e dal rigore dello storico sociale. E di fronte al business della memoria (gruppi che calcano i palchi come morti viventi, sontuosi cofanetti che rimpinguano le casse delle case discografiche) e a sottili operazioni retromaniache (il re-enactement come operazione estetica, i fantasmi di futuri mai realizzati della hauntology), Reynolds sembra porre una domanda radicale. È ancora possibile una musica che sia in grado di parlare all'urgenza del qui e ora o siamo ormai condannati a un turismo musicale virtuale, senza il brivido della scoperta e della novità, guidati solo dalla nostra capacità di orientarci nel grande archivio del passato?






RETROMANIA
Simon Reynolds
480 pag. PAGINE | 26.90 EURO
Data di uscita: 15 settembre 2011
Traduzione: Michele Piumini

martedì 13 settembre 2011

INFLUENZE

© Tyler Morgan's blog

Non è passato poi molto tempo da quando definire un musicista o una band “derivativi” equivaleva a un insulto dei peggiori. Derivare in modo esplicito da qualcun altro significava essere poco originali, imitare, prendere in prestito suoni e stili del passato, essere incapaci di affrontare le sfide del presente musicale, manifestare una tendenza museale e conservatoriale opposta all'idea di creatività assoluta. Soprattutto, voleva dire non essere in grado di lanciare suoni davvero nuovi, capaci di spingere la musica verso il futuro. Se osserviamo le creazioni musicali degli ultimi anni, nota Reynolds, il fatto di indossare e manifestare in modo esplicito le proprie influenze è un modo per essere al passo con i tempi.
Pare quasi che le cose si siano ribaltate: se non sei derivativo, se non mostri con chiarezza chi sono i tuoi maestri, se non fai in modo che i predecessori e gli antenati si possano sentire costantemente all'interno della tua musica, non sei davvero attuale. Provo a fare un po' di nomi (alcuni li riprendo da Reynolds, ma altri ne aggiungo io e l'elenco potrebbe continuare). I soliti, da Jesus & Mary Chain a White Stripes, da Primal Scream a Franz Ferdinand, passando per  Strokes e Devendra Banhardt. Ma quante cose potrebbero stare nell'elenco? Si potrebbe con un po' di pazienza creare una tavola degli elementi pop-rock, per poi chiedersi quale combinazione manca. Stone Roses (Byrds con molto groove), Spiritualized (psichedelia + gospel + wall of sound alla Spector/Brian Wilson), Interpol (Television + Joy Division), Setreolab (Kraut + Françoise Hardy), Arctic Monkeys (Kinks + Smiths con l'acceleratore schiacciato). Ci sono persino i gruppi derivativi che vanno a periodi, tipo Picasso, come fanno gli Horrors (Cramps + Seeds prima, My Bloody Valentine + Krautrock poi). Oppure, abbiamo band come gli Arcade Fire che attraversano buona parte della tradizione rock e indie creando una ricetta trascinante (una specie di epic-indie wagneriano) e inconfondibile, come se Neil Young o Springsteen fossero passati attraverso il grunge e il post-rock (e non viceversa).
Questo elenco sommario è interessante per un motivo ben preciso. Se andate a guardarvi gli elenchi dei migliori dischi – i più rappresentativi – degli anni novanta o degli anni zero, questi artisti li troverete praticamente tutti (attenzione, alcuni sono dei capolavori, vedi Spiritualized, Arcade Fire, Stereolab o Arctic Monkeys, ma questo non elimina l'effetto derivativo). Quindi ecco qui la cosa che fa pensare: cosa succederà quando l'intervallo della nostalgia si assottiglierà ulteriormente, portando i nuovi musicisti a essere influenzati in modo diretto da musicisti che nascono già come fieramente derivativi? La categoria di originalità avrà ancora senso di fronte al trionfo di un pop al secondo grado?





venerdì 9 settembre 2011

LA CHIUSURA DEL PORTALE

© Archigram Archival Project

In prima superiore, durante una visita alla biblioteca scolastica (una biblioteca che per qualche oscura ragione non era accessibile agli studenti e che non avrei mai più rivisto fino all'ultimo anno), mi fiondai sullo schedario alla ricerca del nome di uno scrittore. Individuata la collocazione dei libri di quello scrittore, scelsi il più grosso e lo presi in prestito. Al termine di quella fugace visita, sotto gli occhi stupiti dei miei compagni di classe, stringevo sotto il braccio il corposo Meridiano di Oscar Wilde, come se fosse stata la cosa più figa del mondo. Dato che in quel periodo non ero quello che si potrebbe definire un lettore forte (di letteratura, per quanto riguarda i fumetti altra storia...), l'episodio aveva dell'incredibile. Cos'era successo? Era successo che in Cemetery Gates, contenuta nell'album degli Smiths The Queen is Dead, che a quel tempo consumavo, Morrissey cantava "Keats and Yeats are by your side, while Wilde is on mine...". Verso evocativo che mi aveva fatto pensare a quei tre come se si trattasse di custodi di saperi segreti, sorta di re magi della poesia inglese, sicuramente appassionanti da leggere e ricchi di tesori iniziatici. Purtroppo, arrivato a casa col Meridiano di Wilde in mano, presi la decisione di iniziare la lettura non dal Ritratto di Dorian Gray, che qualche anno dopo avrei scoperto e apprezzato, ma dalla luttuosissima e tragica Ballata del carcere di Reading, titolo che ancora oggi non riesco a pronunciare senza un brivido accompagnato da una sensazione di soffocamento. Fine del breve idillio con Wilde, e sarebbero passati anni prima che considerassi ancora uno status symbol tenere un libro in mano...
La musica pop e rock, anche a livello tematico, è stata a lungo un portale, un ingresso su altri mondi. Mark E. Smith dei Fall (il nome della band viene da La Caduta di Camus) che parla di Dostoevskij o dei racconti di fantasmi di Montague Rhodes James, gli Scritti Politti che intitolano una canzone Jacques Derrida. I Talking Heads che prendono il testo di I Zimbra da Hugo Ball, uno dei fondatori del Cabaret Voltaire, oppure versi come "Lode a Mishima e a Majakovskij" salmodiati da Giovanni Lindo Ferretti. E ancora, titoli come Truman Capote o Saul Bellow (rispettivamente di Künnecke & Smukal e Sufjan Stevens). Un nome o un riferimento in una canzone potevano scatenare una curiosità, spingere a una lettura. Far venir voglia di...
Si parlava del mondo esterno, di quello che accadeva fuori della musica, anche quando si parlava di letteratura. In fondo, scopate, passioni, visioni o letture erano comunque temi della vita praticata (a volte) o sognata (più spesso), dell'adolescente. Oltre all'incontro (sfortunato) col Wilde della terrificante Ballata del carcere di Reading (altro brivido...) ricordo la scoperta di Lovecraft stimolata dai Metallica di The Call of Cthulhu e di The Thing That Should Not Be. Apparizioni di nomi come piccoli sogni di mondi possibili, che in un'era pre-internet erano spesso solo suggestioni vaghe, curiosità da soddisfare a scoppio ritardato, perché mancava la materia prima. Quindi c'era un rapporto con il desiderio, con la ricerca, con la mancanza da colmare.
Ora, dice Reynolds, la musica sembra parlare soprattutto di se stessa, attraverso la ricerca di suoni in grado di evocare sapori passati, con il ricorso a un lessico caratterizzato temporalmente, ad abiti vintage, a immagini e immaginari legati a un certo periodo della storia della musica pop. Si decide di suonare in un modo ben preciso, ed ecco centinaia di weird folkers, neo kraut, riattivatori del verbo sabbathiano attraverso lo stoner, integralisti del thrash metal (ma non hanno mai suonato così bene, al tempo, quei dischi), scopiazzatori devoti della linea Stones-Stooges, cultori di musichette da programma di utilità pubblica inglese, riattivatori di Punk Funk (vedi Franz Ferdinand) e molti altri esempi. Basta guardarsi attorno e ascoltare. Si costruisce il proprio essere musicisti con abiti trovati in giro, smessi da altri. E qui sta il punto, dice Reynolds: un tempo, il rock parlava dell'esperienza del teenager, mentre oggi la musica sembra parlare soprattutto di altra musica. Dal commento dell'esperienza vissuta al commento del commento, in una sorta di deriva talmudica, in cui tutto sembra essere una questione di note a piè di pagina di un testo che è già stato scritto. In un certo senso, è come se il portale su altri mondi si fosse chiuso e la musica si proponesse come l'unico mondo possibile.







mercoledì 7 settembre 2011

RIPETIZIONI 3: IL BREAK MUTANTE

A partire dai due post sul tema (qui e qui), si possono distinguere due forme di ripetizione che forse aiutano a sciogliere alcuni dei nodi di Retromania. Propongo di fare una distinzione tra

  • Una riproduzione del passato, che si basa su criteri mimetici e parte dalla constatazione che un determinato modo di far musica ormai fa parte di un vocabolario sonoro acquisito e accettato, disponibile a tutti. È la ripetizione passiva, ormai alla portata di chiunque grazie all'immenso archivio sonoro a disposizione dell'ascoltatore e all'accessibilità di programmi che permettono di manipolare il suono. Rappresenta l'atteggiamento più propriamente retromaniaco e nostalgico. Può produrre buona musica, ma difficilmente produrrà nuovi suoni.
  • Una ripetizione della novità dell'evento, cioè la riconnessione con la parte di evento che non è stata completamente attualizzata e che può insistere, sotto forma di ulteriore novità, sul nostro presente. È la ripetizione creativa, che cerca di ritrovare la spinta alla novità del suono di partenza per farlo entrare in risonanza con contesti e territori musicali inediti. Il rapporto con il passato esiste, ma non ha nulla di nostalgico. Quelli che escono dal filtro della mutazione non sono copie o parodie postmoderne, ma nuovi organismi costruiti anche (ma non solo) con componenti di organismi del passato. Un passato che non ha ancora finito di lanciare i suoi segnali verso il futuro.

Faccio un esempio molto rapido: il break ritmico "inventato" da James Brown e dai suoi musicisti negli anni sessanta diventa in seguito il centro di propulsione della musica funky, grazie a musicisti come Sly Stone e George Clinton. Il funky ben presto si afferma come un vocabolario dominante, perdendo la sua forza di innovazione sonora e riducendosi a semplice codice di riproduzione stilistica. Il break di batteria allora migra, come un virus che diffonda il proprio frammento di codice mutante, entrando in altri organismi e facendoli ulteriormente mutare. Và a costituire l'ossatura ritmica di buona parte dell'hip-hop, sulla quale gli MC recitano le loro rime (come in Fight the Power dei Public Enemy, che contiene proprio un sample del break di batteria di Funky Drummer di James Brown, suonato da Clyde Stubblefield).
Se già con l'hip-hop il break cominciava a perdere la dimensione ipersessuata che aveva in James Brown per diventare strumento di rabbiosa rivendicazione politica, poco a poco si trasforma in una scheggia sonora autonoma e incattivita. Ecco allora nei primi anni novanta il breakbeat, la parte campionata e riassemblata che costituisce l'ossatura ritmica e la novità sonora della jungle. La frenesia e la frammentazione del ritmo fanno da specchio a una musica sempre più oscura. E ancora, gli stessi breakbeat - entrando negli anni zero - vengono rallentati e ulteriormente decostruiti, trasformando l'iperattività adrenalinica della jungle nella narcosi ritmica e nelle griglie di beat irregolari del dubstep. Da qui partono ulteriori linee di evoluzione, come nei pezzi di Zomby, in cui gli ultrabassi dubstep incontrano la musica da videogame e la techno, ricapitolando due decenni di musica da rave.
La storia continua...









giovedì 1 settembre 2011

RYAN MCGINLEY, LA DOLCE ALA DELLA GIOVINEZZA


Il fotografo Ryan McGinley lo conoscete se avete comprato Með suð í eyrum við spilum endalaust, cioè il disco dei Sigur Rós del 2008, quello con un gruppo di ragazzi che corrono verso le verdi colline dopo aver scavalcato un guard rail, con addosso solo le scarpe. Oppure, potrebbe avervi colpito la copertina de Il Regno Animale, romanzo d'esordio di Francesco Bianconi dei Baustelle. È la foto di una ragazza piuttosto androgina. A coprirla solo un coyote vivo, sulle spalle. Graffi sul ventre e sulle cosce. Per capire che non è una ragazza e avere, se siete etero, una conferma dei vostri gusti sessuali, dovete osservare bene, perché potrebbe essere anche un ragazzo bellissimo, mezzo elfo e mezzo alieno. La ragazza guarda in camera con uno sguardo leggermente strabico. L'asimmetria degli occhi la rende ancora più intrigante. E poi c'è il lupo, anche lui ha lo sguardo in camera. È un po' spaesato, non credo che gli capiti tutti i giorni di stare sulle spalle di una ragazza nuda.
Lo stile di Ryan McGinley è molto interessante ed è in assoluto equilibrio tra perfezione della resa estetica e leggero spaesamento indotto da cose che non dovrebbero stare assieme. I suoi nudi sono corpi e volti imperfetti, appena usciti dall'adolescenza, ma del tutto a loro agio nel muoversi in scenari naturali incantati. C'è una specie di vena atletica nelle sue ragazze che saltano e si tuffano, o che sembrano soffiate nella foto da un colpo di vento, nei gruppi arrampicati in cima agli alberi, nei ritratti con animali che sembrano spiriti guida non ancora staccati del tutto dal teenager che sta per diventare adulto. Ninfe ed elfi usciti da una rivista di moda che abitano in un mondo di boschi, laghi, stagni, erba, alberi, gufi, coyote, cerbiatti, pavoni, alligatori, ragni. I suoi modelli intrattengono con la natura un dialogo che sembra essere precluso a tutti noi e che durerà per un tempo molto breve. Un giorno smetteranno di parlare il linguaggio fatto di gambe troppo magre e muscoli allungati. I loro nervi si faranno spessi, le indecisioni delle forme prenderanno una direzione definitiva. La fine della metamorfosi.
A volte le foto, in un bianco e nero estremamente pulito o a colori, con aloni e margini sfumati che trasformano gli occhi e i seni - esposti alla luce del sole o della luna - in doppi eterei, metà corpo metà spirito, raccontano dialoghi segreti. Mi ricordano certe immagini di Larry Clark o di Gus Van Sant, trasfigurate in una sorta di incanto cosmico (credo sia questo che ha attratto i Sigur Ros). Sufficientemente ammiccante da piacere anche al mondo della moda (ha fatto tra l'altro campagne pubblicitarie per la Levi's),  McGinley è un cocco della comunità chic newyorkese e definisce le proprie opere come "un incontro tra fotografie di nudisti, porno vintage e le copertine di Sports Illustrated". Quello che mi inquieta e attrae, nei suoi lavori, è una vocina che sembra sussurrare e che dice "Guardateci, non sarete mai come noi, e anche noi – finché saremo vivi – non potremo mai più essere così belli".

Il sito di McGinley è ryanmcginley.com