martedì 13 settembre 2011

INFLUENZE

© Tyler Morgan's blog

Non è passato poi molto tempo da quando definire un musicista o una band “derivativi” equivaleva a un insulto dei peggiori. Derivare in modo esplicito da qualcun altro significava essere poco originali, imitare, prendere in prestito suoni e stili del passato, essere incapaci di affrontare le sfide del presente musicale, manifestare una tendenza museale e conservatoriale opposta all'idea di creatività assoluta. Soprattutto, voleva dire non essere in grado di lanciare suoni davvero nuovi, capaci di spingere la musica verso il futuro. Se osserviamo le creazioni musicali degli ultimi anni, nota Reynolds, il fatto di indossare e manifestare in modo esplicito le proprie influenze è un modo per essere al passo con i tempi.
Pare quasi che le cose si siano ribaltate: se non sei derivativo, se non mostri con chiarezza chi sono i tuoi maestri, se non fai in modo che i predecessori e gli antenati si possano sentire costantemente all'interno della tua musica, non sei davvero attuale. Provo a fare un po' di nomi (alcuni li riprendo da Reynolds, ma altri ne aggiungo io e l'elenco potrebbe continuare). I soliti, da Jesus & Mary Chain a White Stripes, da Primal Scream a Franz Ferdinand, passando per  Strokes e Devendra Banhardt. Ma quante cose potrebbero stare nell'elenco? Si potrebbe con un po' di pazienza creare una tavola degli elementi pop-rock, per poi chiedersi quale combinazione manca. Stone Roses (Byrds con molto groove), Spiritualized (psichedelia + gospel + wall of sound alla Spector/Brian Wilson), Interpol (Television + Joy Division), Setreolab (Kraut + Françoise Hardy), Arctic Monkeys (Kinks + Smiths con l'acceleratore schiacciato). Ci sono persino i gruppi derivativi che vanno a periodi, tipo Picasso, come fanno gli Horrors (Cramps + Seeds prima, My Bloody Valentine + Krautrock poi). Oppure, abbiamo band come gli Arcade Fire che attraversano buona parte della tradizione rock e indie creando una ricetta trascinante (una specie di epic-indie wagneriano) e inconfondibile, come se Neil Young o Springsteen fossero passati attraverso il grunge e il post-rock (e non viceversa).
Questo elenco sommario è interessante per un motivo ben preciso. Se andate a guardarvi gli elenchi dei migliori dischi – i più rappresentativi – degli anni novanta o degli anni zero, questi artisti li troverete praticamente tutti (attenzione, alcuni sono dei capolavori, vedi Spiritualized, Arcade Fire, Stereolab o Arctic Monkeys, ma questo non elimina l'effetto derivativo). Quindi ecco qui la cosa che fa pensare: cosa succederà quando l'intervallo della nostalgia si assottiglierà ulteriormente, portando i nuovi musicisti a essere influenzati in modo diretto da musicisti che nascono già come fieramente derivativi? La categoria di originalità avrà ancora senso di fronte al trionfo di un pop al secondo grado?





1 commento:

  1. Eccellente, eccellente.
    Una cosa m'ha davvero colpito di Retromania: la prima cosa che ho fatto è guardare l'indice dei nomi per vedere dove Reynolds avrebbe parlato di Moroder. Niente. Vado allora al paragrafo su Neon Indian e compagnia bella. Me lo divoro: tutto richiama, trasuda, gronda Moroder: l'immaginario, i film, il periodo, le sonorità. Ma lui manca. E dire che gran parte dell'elettronica a stampo pop di tutto il decennio scorso, a partire da quel manifesto programmatico che è stato Discovery dei Daft Punk, ha respirato Moroder.
    Questo gli chiederò a Milano: domanda inutile o giusta curiosità?

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